Come ampiamente pronosticato, nell’uovo di Pasqua la Juventus di Andrea Agnelli ha trovato (sorpresa, sorpresa), l’ottavo Scudetto consecutivo, il quinto sotto la gestione Allegri dopo il tris conquistato da Antonio Conte. Un Campionato che nella sostanza non è mai esistito per quanto concerne la lotta al titolo: manifesto all’estremo lo strapotere dei bianconeri su di una concorrenza che togliendosi punti a vicenda o sgambettandosi da sola, non è mai andata nemmeno solamente vicina a far sentire l’eco del proprio grido di battaglia alle orecchie di Chiellini e compagnia.
La scarsa competitività al vertice del Campionato italiano (evidenziata anche dagli insoddisfacenti risultati del contingente nostrano nelle Coppe Europee, ormai una amara ricorrenza) e lo shock vissuto lo scorso 16 aprile contro l’Ajax in Champions dividono il mondo bianconero in due tronconi relativamente al trentacinquesimo scudetto: giusto festeggiarlo? O la conferma sul più alto scranno del Belpaese era quasi “dovuto” da parte di una squadra chiamata invece all’assalto Coppa dalle grandi Orecchie?
Come (in maniera al contempo ovvia e giusta) rimarcato dall’ambiente juventino, è giusto e meritato festeggiare lo “ScudOtto”. Pur restando valide le constatazioni fatte in precedenza circa la “difficoltà” bianconera nel centrare il Tricolore, vincere il titolo per otto anni consecutivi è un evento che non può passare in sordina; come spesso ricordato a stagione in corso, la consapevolezza della propria manifesta superiorità nei confronti della concorrenza era il nemico più grande da fronteggiare per Massimiliano Allegri, che con intelligenza ha guidato i suoi ragazzi nei vari momenti della stagione sopprimendo sul nascere ogni entusiasmo avversario per mezzo di una campagna condotta lasciando meno di una manciata di briciole sul tavolo in favore della concorrenza.
Sul versante opposto, però, è altresì evidente e comprensibile che per il mondo bianconero (o parte di esso) la festa sia in “tono minore“; aldilà delle parole di rito il vero obiettivo juventino per la stagione 2018/19 era infatti la Champions League. Ovvio che, come ricordato spesso da Allegri, Juventus+Cristiano Ronaldo=Champions League non fosse un equazione né logica né sensata nonostante l’asso portoghese fosse reduce da tre trionfi consecutivi (quattro negli ultimi cinque) nella massima competizione continentale per club del Vecchio Continente. Se quindi era illogico fare di questo genere di calcoli, lecito era invece attendersi la Juventus in semifinale di Champions League, a maggior ragione dopo un sorteggio che per i bianconeri aveva riservato l’Ajax di ten Hag all’epoca reduce dal clamoroso scalpo del Real Madrid.
Avversario insidiosissimo, come i bianconeri hanno scoperto a loro spese, ma alla portata della Juventus ammirata contro l’Atlético Madrid e in (poche) altre circostanze nella stagione in corso. La delusione, oltre che per il mancato superamento del turno, è amplificata dalle modalità con cui l’eliminazione è arrivata e dalla qualità del gioco complessivamente sciorinato dai bianconeri durante l’intera stagione: i Lancieri di Amsterdam infatti non hanno solamente eliminato la Juventus in casa propria, ma nel secondo tempo di Torino l’hanno letteralmente sbriciolata da un punto di vista della tecnica, della mentalità e dell’atletismo.
Va riconosciuto alla Juventus che, suo malgrado, è mancato quel pizzico di fortuna di cui ogni vincitrice della Champions League trova a giovarsi, come testimoniano due dei tre gol subiti contro l’Ajax: quello di David Neres ad Amsterdam e quello di van de Beek a Torino. Resta, però, la disarmante fatica bianconera al cospetto delle Piccole Pesti ajacidi, e quell’incredibile incapacità di reazione tecnica e mentale allo svantaggio che ha permesso a Onana di tenere immacolati o quasi i propri guanti nel momento del teorico assalto alla qualificazione, lasciando basiti osservatori juventini e non dell’incontro.
L’eliminazione in Champions League arriva, poi, a valle di una stagione nella quale nonostante un Campionato dominato la Juventus poche volte ha entusiasmato sotto il profilo del gioco inanellando lungo lo Stivale successi figli più dell’enorme gap tecnico e della determinazione bianconera che di un disegno tattico propositivo e convincente. Se in Campionato, pur se spesso senza brillare, i tre punti sono arrivati spesso e volentieri, lo stesso non può dirsi in Europa: scintillante la Juventus vista a Valencia e Manchester, a fronte di una campagna europea condita da 4 sconfitte in 10 incontri e di una fase ad eliminazione diretta nella quale lo scalpo dell’Atlético (in difficoltà in tutta la stagione in corso, come testimoniò la rabbiosa reazione di Simeone al termine della gara vinta al Wanda Metropolitano) raccolto nella notte di Torino amplifica i rimpianti per la doppia sfida contro l’Ajax di cui si è scritto in precedenza.
Se si aggiunge che anche in Coppa Italia (sempre vinta da Allegri nei precedenti quattro tentativi sulla panchina juventina) a Bergamo non è arrivata una semplice sconfitta ma una pesante disfatta per 0-3, il quadro è completo per una valutazione circa la stagione dei bianconeri che non può raggiungere la sufficienza e, anzi, deve far riflettere circa la dimensione juventina. Non è sufficiente, perché alla fine di una stagione che il mondo Juventus si sperava potesse essere trionfale l’unico trofeo messo in Bacheca (tralasciando volutamente la Supercoppa italiana) è uno Scudetto (o ScudOtto) che, pur se non scontato alla luce delle riflessioni fatte in apertura, era comunque “auspicabile” da Agnelli e co. e pronosticabile agli occhi degli osservatori esterni; titolo che, prematuro di cinque giornate sulla fine del Campionato, è figlio di successi non sempre convincenti sotto il profilo del gioco. Il gioco, è proprio l’altro spunto di riflessione che divide in due tifosi, giornalisti e addetti ai lavori: basta vincere, o anche l’occhio vuole la sua parte?
Il tema, apparentemente opinabile, è in realtà inesistente: se infatti in Campionato determinazione e superiorità tecnica bastano alla lunga per trionfare su avversari in questo momento storico tecnicamente inferiori e zavorrati da discontinuità e problematiche societarie e di spogliatoio, in Champions League vince chi a un parco giocatori di livello mondiale affianca una filosofia di gioco propositiva, come testimonia l’albo d’oro della Champions League anche solo dell’ultimo decennio, con l’unica eccezione forse rappresentata dal Chelsea di Di Matteo. Qualcuno potrebbe alludere all’Atlético Madrid e al Cholismo di Simeone, fatalità o meno beffati però a un centimetro dal traguardo dal Real Madrid in due circostanze. Anche andando oltre lo sfortunato esito finale per i Colchoneros, la filosofia suggerita da questo approccio è statisticamente poco incoraggiante, e quindi sconsigliabile alla Juventus; il (bel) gioco può non essere l’unico requisito richiesto per trionfare in una competizione nella quale tanto incidono anche altri elementi (qualità e blasone degli interpreti, sorteggi, fortuna, condizione psico-fisica nei momenti decisivi), ma paga più dell’approccio sparagnino/speculativo che spesso ha accompagnato le ultime campagne juventine entro e oltre i confini nazionali. É questo l’ultimo step da superare per la Juventus nella tanto agognata scalata al monte Olimpo del calcio europeo, da ritentare con determinazione la prossima stagione; con o senza Massimiliano Allegri, ma questa è un’altra querelle che, senza nemmeno i Campionati Europei o Mondiali, ci accompagnerà abbondantemente nei prossimi mesi.