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Ciclismo, un’altra mazzata per le Professional italiane

Nei vari ambiti della vita, spesso si ha quasi paura di utilizzare la parola “eroe” perché non si vuole correre il rischio di infarcire di retorica determinati episodi, personaggi e/o argomenti. E lo sport non fa eccezione alla regola. Quante volte si vuol scrivere di comportamenti “eroici” di protagonisti di particolari imprese, ma si centellinano questi termini affinché il gesto sportivo non venga offuscato da troppa pomposità di parole.

In questo particolare caso, però, ci disinteressiamo altamente e fortemente del rischio di essere retorici. E a voce squillante (o meglio, a parole squillanti) affermiamo che il ciclismo italiano ha i suoi eroi. I corridori? Certo, loro sono l’essenza di questo sport che – volendo scoprire l’acqua calda – semplicemente non potrebbe esistere senza la loro presenza. Ma questa volta vogliamo riferirci a altri “eroi” che con i loro sacrifici tengono a galla il movimento ciclistico italiano.

Sono gli imprenditori delle aziende che sponsorizzano le Professional italiane. Sono quattro in questo 2019: la Androni Giocattoli – Sidermec, la Bardiani – CSF, la Neri Sottoli – Selle Italia – KTM e la Nippo – Vini Fantini – Faizane. Numeri che rispecchiano l’andamento lento del movimento del pedale italico, che dopo il ritiro della Lampre nel 2016 non ha alcuna formazione nel gruppo principale, l’UCI World Tour. E pensare che solo fino a una quindicina di anni fa, l’Italia poteva vantare una decina di formazioni nel primo gruppo e addirittura al Tour de France 1995 vi erano 10 squadre italiane su un totale di 22.

Quindi, i pochi imprenditori italiani che ancora insistono nell’investire nel ciclismo sono davvero degli eroi. Doppiamente eroi, perché accettano di conquistare la possibilità di partecipare al Giro d’Italia, il massimo evento tricolore del pedale, sul “campo”. Cioè vincendo la Ciclismo Cup, il campionato italiano per squadre. Ogni formazione conquista punti in base al piazzamento dei primi tre corridori nelle corse appartenenti a questo circuito e la vincitrice, oltre a fregiarsi dello scudetto tricolore da sfoggiare sulle maglie per la stagione successiva, acquisisce automaticamente il diritto a partecipare al Giro d’Italia.

O meglio, acquisiva. Perché da questa stagione chi vincerà la Ciclismo Cup – scattata domenica scorsa col Trofeo Laigueglia vinto dal bravo Simone Velasco della Neri Sottoli – potrà vestire lo scudetto nel 2020, ma non avrà la certezza di partecipare al prossimo Giro d’Italia. Questo ha deciso la Lega del Ciclismo Professionistico.

Una decisione figlia della riforma UCI del 2020, che prevede il diritto di partecipare ai Grandi Giri alle prime 2 compagini Professional nella classifica finale mondiale del 2019. Diritto che riduce il numero delle cosiddette wild card che gli organizzatori dei Grandi Giri possono concedere.

Comprendiamo l’esigenza di questi ultimi, ma ubi maior minor cessat. Le ragioni degli imprenditori delle aziende che reggono il movimento del ciclismo italiano, francamente, ci sembrano superiori. Già i sacrifici che questi eroi fanno sono innumerevoli, se gli togliamo anche la possibilità di sognare l’approdo alla Corsa Rosa vuol dire volere la morte del ciclismo italiano. Inutile indorare la pillola, inutile fare tanti giri di parole. Se la decisione della Lega sarà confermata, il ciclismo italiano è destinato a scomparire nel giro di pochi mesi, altro che anni. Noi più di lanciare l’allarme non possiamo fare. Sta alla Lega riflettere e – speriamo – coglierlo.