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Pro Piacenza, parla Morrone: “Il mondo del calcio è prigioniero delle proprie norme”

20-0, questo il risultato che gli almanacchi del calcio riporteranno alla voce Serie C nel tabellino di Cuneo-Pro Piacenza disputata il 17 febbraio 2019 allo stadio Fratelli Paschiero. Una scritta nera su bianco, o meglio dovrebbe essere, una scritta rossa di vergogna sulla passione dei tifosi.

Di situazioni anomale la terza serie ogni anno ne regala a bizzeffe e quando, e vale persino per i giornalisti, si chiude una stagione che sembra avere offerto il peggio, ecco che ne comincia subito un’altra a far ricredere tutti. Ma se le radiazioni, le retrocessioni d’ufficio, le centinaia di punti di penalizzazione comminate per il mancato rispetto delle regole (sì, ma quali regole?) fanno ormai parte integrante, diventati un’abitudine malsana, della vita di club, giocatori e addetti ai lavori, non è ammissibile che il calcio professionistico (?) regali scene da oratorio, con tutto il rispetto per gli oratori che svolgono una funzione importantissima nella vita sociale di ogni piccola cittadina o quartiere.

Si parlava di modello Pro Piacenza meno di un anno fa; poi, la deriva e il Direttore Generale Alfonso Morrone cacciato via Facebook senza tante spiegazioni e rispetto.

Direttore, la data fatidica è il 22 agosto.

Sì, ho saputo del mio allontanamento via social. Il Pro Piacenza era un club solido, ma io sapevo bene dove potesse arrivare e per fare bene il mio mestiere si deve fare i conti con ciò che si ha senza andare oltre. Mi chiedevano la promozione in B, ma per andare in cadetteria occorrono soldi che in quel momento il club non poteva permettersi. Tanti furono gli screzi, ma io sono una persona chiara e diretta e non potevo permettere certe cose.

Cuneo-Pro Piacenza 20-0, che calcio è questo?

È un calcio malato. Tutti dovremmo fare un passo indietro e riflettere insieme sul futuro. La mancata qualificazione agli ultimi Mondiali è solo la punta di un iceberg di una serie di problematiche che, ahimè, sono sempre più difficili da risolvere. Ci siamo incancreniti su norme federali del nostro ordinamento che non sono al passo con i tempi. Basti pensare che abbiamo trascorso l’estate e l’autunno per sapere quante e quali squadre dovessero andare in B e in C e tutto ciò accade perché c’è un corto circuito di norme, le quali vanno riformate mettendosi attorno a un tavolo. Per esempio, che senso ha permettere a una squadra di giocare con sette calciatori (e forse uno era un massaggiatore) e che senso ha che un club che non paga gli stipendi da agosto possa ancora scendere in campo? Questo rappresenta il fallimento del calcio e non me la prendo nemmeno con i presidenti Gravina e Ghirelli, anche se credo che alla sospensione o rinvio delle partite, seguisse poi un provvedimento drastico riguardo al Pro Piacenza. E però le norme non lo permettono perché non si può radiare una società dall’oggi al domani: il Matera lo è stato perché ha rinunciato a presentarsi per la quarta volta. Il Pro Piacenza il 16 ottobre non ha rispettato la prima scadenza del pagamento degli stipendi, stessa cosa il 16 dicembre e, sono sicuro, la cosa si ripeterà. In un contesto del genere è inconcepibile che una società del genere ancora possa presentarsi in campo. È intollerabile che una squadra professionistica possa presentarsi il 17 febbraio, dopo la seconda finestra di mercato, con sette giocatori. Il mondo del calcio è prigioniero delle proprie norme. Io sono ancora un dipendente del Pro Piacenza e non percepisco stipendio da agosto. Devo salvaguardare i miei diritti, ma non è possibile fare un decreto ingiuntivo e bisogna rivolgersi alla Giustizia Sportiva tramite i lodi. In Serie C non ci sono contratti milionari, per cui è difficilissimo andare avanti.

Come può un club ridursi così?

Basta andare ad analizzare le operazioni di mercato del Pro dal 22 agosto a oggi e capire il percorso che porta il club alla situazione odierna. Io ero partito per fare una squadra che raggiungesse la salvezza. Invece, dall’oggi al domani, vengo a sapere tramite Facebook di non essere più il DG del Pro Piacenza e iniziano ad arrivare carovane di giocatori. Evidentemente, chi ha gestito il club dopo di me pensava più ai propri interessi che a quelli del Pro Piacenza. Io, invece, nel mio lavoro sono un “talebano” e guardo solo all’interesse del collettivo: a me interessa solo essere una persona credibile in un mondo credibile.

In qualità anche del suo ruolo di presidente ADICOSP (Associazione Italiana Direttori e Collaboratori Sportivi), è stato mai redatto un documento che riassuma il complesso di norme che andrebbero cambiate?

Essendo un’associazione di categoria, abbiamo un rapporto continuo con il Presidente Gravina e cerchiamo di confrontarci con lui continuamente. La prima “presa in giro” è che tra i professionisti c’è l’obbligo di avere il direttore sportivo, ma il presidente o chi ha la responsabilità di gestire un club può avocare a sé questo ruolo e, quindi, diventa solo un modo per aggirare l’ostacolo. Diventa una lotta contro l’abusivismo perché in molte squadre, anche importanti della Serie C, il direttore sportivo è un abusivo senza titoli per potere ricoprire quel ruolo. Eppure, esiste l’elenco speciale dei direttori sportivi: si fa il corso a Coverciano, ci si abilita e si diventa DS e tra l’altro ha anche un costo elevato. Inoltre, non esiste un fondo di solidarietà, non esiste una tutela sanitaria. Tra i dilettanti da qualche anno esiste la figura del collaboratore, ovvero il DS per le squadre dilettantistiche, ma è solo una facoltà non un obbligo. Ma se esiste il corso per questa specifica figura professionale, occorre anche l’anche l’obbligo per i club dilettantistici di contrattare persone abilitate. Inoltre, c’è un paradosso perché un DS professionista non può essere contrattualizzato tra i dilettanti. Occorre urgentemente riformare tutto il sistema e il calcio deve necessariamente investire su chi ha le competenze professionali adeguate.

Parliamo nel caso specifico della Serie C.

La Serie C è insostenibile; e chi arriva dalla Serie D spesso non riesce ad affrontare come si deve il passaggio tra i professionisti. Non c’è una logica e non c’è un passaggio intermedio che prepari ai cambiamenti; inoltre, mancano le strutture. Pensiamo all’Albissola, che gioca a Chiavari, o al Gozzano, che gioca a Vercelli. Per esempio, e parlo della Capitale: se vinco la Serie D con una delle tante squadre romane, sarò costretto a emigrare perché, tolto l’Olimpico, a Roma non ci sono strutture sportive adeguate. Quindi, è proprio questo uno dei punti di partenza; perché noi vogliamo imporre regole “britanniche”, ma poi nel contesto italiano non si riescono ad attuare. Io credo ancora nel risultato del campo: in A, in B, in C e così via deve andare chi li ha vinti i campionati o tutt’al più chi ha perso gli spareggi. Parlare ancora di ripescaggi sulla base di quozienti e parametri è insano: il calcio è un settore malato (in un paese altrettanto malato) nel quale il punteggio, il parametro diventa prioritario rispetto al risultato del campo. Lo dobbiamo a chi lavora nei club e ai calciatori perché altrimenti vincere le partite non conta più nulla. In Serie D attualmente si fanno i playoff per poi alla fine non vincere nulla.

Che soluzione si può prospettare?

Il sistema non regge più. Secondo me, bisogna ridurre le squadre di terza serie o, quantomeno, creare una sorta di semiprofessionismo, durante il quale i club di calcio possano disporre di sgravi fiscali per potere sopravvivere e di iniziare, eventualmente a programmare in maniera responsabile il passaggio al professionismo attraverso l’adeguamento delle infrastrutture e il rispetto di certi parametri richiesti alle società. Io proverei a fare una C di 36 massimo 40 squadre, una D di tre o quattro gironi semiprofessionistica e, poi, come esisteva un tempo l’Interregionale. In modo che chi approda in D possa disporre di un passaggio intermedio per potersi meglio strutturare.