In Primo Piano

Gigi, una “Radice” di schiettezza

Ai più giovani, molto probabilmente il nome di Roberto Mozzini dirà poco o nulla. Mentre qualcosina di più dirà agli appassionati di calcio più maturi. Difensore centrale degli anni Settanta, Mozzini ha vinto due scudetti. Il secondo, cronologicamente parlando, con l’Inter nel 1980 ed è stato proprio lui a realizzare il gol che è valso il tricolore il 27 aprile 1980 in Inter-Roma 2-2. Il primo, invece, il centrale nativo di Sustinente lo ha vinto con il Torino nel 1976. E il giorno della certezza del successo tricolore – il primo e finora unico dei granata dopo Superga – Mozzini mise nuovamente la sua firma. Questa volta però realizzando l’autogol che consentì al Cesena di pareggiare la sfida del 16 maggio 1976 al «Comunale» di Torino per 1-1. Nonostante quel segno “X”, i granata furono lo stesso Campioni d’Italia, dato che la Juventus, che al fischio d’inizio di quella 30/a e ultima giornata di campionato era seconda a -1, perse 1-0 a Perugia (guarda un po’ il caso) con gol del compianto Renato Curi.

Al fischio finale del signor Casarin di Milano, il «Comunale» esplose in un urlo liberatorio di gioia e di tripudio. Tutti felici, compresi i bianconeri del Cesena che potevano celebrare una storica qualificazione in Coppa UEFA. Tutti, tranne uno. Tranne Gigi Radice. E la “colpa” è di Roberto Mozzini. L’allenatore di quel Torino scudettato, scomparso venerdì scorso all’età di 83 anni, al termine della partita venne subito “bloccato” dal grande Paolo Frajese. Il celebre giornalista lo incalza dicendogli: “sei l’allenatore della squadra Campione d’Italia“. Radice invece sta sul pezzo, chiede cosa ha fatto la Juventus, incrocia Mozzini e chiede lumi sull’episodio dell’autogol. Poi, appena si accorge della presenza di Frajese, risponde con un perentorio: “mi dispiace per quell’episodio, perché potevamo vincerla“. Il giornalista insiste: “lascia perdere la partita, sei Campione d’Italia“. E Radice: “Eh lo so, ma dispiace, perché potevamo vincere. Poi magari dopo passa…“. Parole seguite dall’elogio al pubblico granata e l’abbraccio con Paolino Pulici e Renato Zaccarelli, due degli eroi di quel Toro tricolore.

Sembra impossibile, hai appena vinto uno Scudetto che sa di storia e ti dispiace, quasi chiedendo scusa, per aver “solo” pareggiato. Eppure è vero. Gigi Radice era così. Una fonte di schiettezza e di trasparenza che sono virtù che, nel cosiddetto calcio moderno, sembrano passate fuori moda. Dire sempre quello che si pensava, sempre in qualunque occasione e senza preoccuparsi troppo di chi fosse l’interlocutore. A costo di rimetterci personalmente.

Come accadde nel dicembre di 26 anni fa. Radice è l’allenatore di una Fiorentina che sta sorprendendo tutti. Alla 13/a giornata i viola sono secondi, poi al turno successivo perdono per 1-0 contro l’Atalanta di Marcello Lippi in casa. A fine partita, nello spogliatoio del «Franchi» volano gli stracci tra Radice e Vittorio Cecchi Gori, allora solo vicepresidente viola ma già facente funzione di massimo dirigente, in quanto il Presidente, suo padre Mario portava già i segni della malattia causa della sua morte nel dicembre 1993. Cecchi Gori opta per l’esonero e la decisione si rivela un boomerang, dato che i viola entrano nel tunnel di una crisi che li porterà a una clamorosa retrocessione in B.

Oppure come accadde a fine agosto 1993. A Bologna, campo neutro, Radice da allenatore del Cagliari sfida, per la 1/a giornata di campionato, proprio l’Atalanta. I neroblu, che in panchina presentano un esordiente Francesco Guidolin, battono per 5-2 i sardi. Il Presidente Cellino non aspetta altro ed esonera Radice, sostituito da Giorgi. Un esonero non certo semplice, con i due che arriveranno persino a combattere tramite vie legali. Il tecnico lombardo pagò anche allora la sua sincerità, la sua voglia di esprimere il proprio pensiero. Anche andando contro la stampa dell’epoca che certo non lo sostenne, anzi.

Quanti bocconi amari ha dovuto ingoiare Gigi Radice nel corso della sua carriera. Bocconi che però sono stati addolciti dal fatto di aver sempre agito in piena libertà. Una “Radice” di schiettezza. Che mancherà – e tanto – al calcio italiano.