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Perdere fa (anche) bene

Per gentile concessione Media Bin FIR | Cattolica Test Match 2018, Roma, Stadio Olimpico, 24-11-2018, Italia v Nuova Zelanda.
Foto: Roberto Bregani / Fotosportit

Può sembrare una frase fatta, in parte lo è. Eppure, è un tipo di riflessione che si è resa più volte attuale durante gli ultimi mesi di rugby internazionale. Non può essere, ovviamente – stante il dramma sportivo di cui ormai è protagonista da anni la Nazionale – un invito a prenderla con filosofia se l’Italia raccoglie un cucchiaio di legno dopo l’altro al 6 Nazioni, o se squadre tutto sommato “normali” come USA e Georgia l’hanno superata nel ranking. Parliamo, piuttosto, della Nuova Zelanda, che della graduatoria di World Rugby è la leader incontrastata e ha mantenuto intatto il suo ruolo di favorita per il Mondiale 2019 dopo Championship e test match autunnali.

Accostare il verbo “perdere” agli All Blacks, di grazia, è cosa strana. Fuori dal mondo, data l’irreale percentuale di vittorie che hanno registrato e registrano a livello internazionale, la forza delle franchigie di club che li foraggiano, un marchio riconosciuto in tutto il globo, anche da chi di palla ovale se ne intende davvero poco. Eppure, è un verbo che quest’anno i giornalisti hanno – finalmente! – potuto accostare a questi mostri sacri, campioni dell’Haka quanto della meta, dell’offload, del killer instict. Magari sono un diesel e iniziano pian piano; poi però, nell’ultimo quarto di gara, danno lo strappo. Un po’ come nel quarto d’ora granata dove, leggenda narra, Valentino Mazzola si rimboccava le maniche: non ce ne era per nessuno. Idem dicasi per loro, con un pallone diverso ma la stessa capacità di fare epoca: chissà se qualcuno ci aveva già pensato, all’accostamento.

Paolo Bona / Shutterstock.com

Ebbene, perdere…. gli All Blacks… hanno perso. Ben due volte, su tanti test giocati nel 2018. Nel rugby union non mancano le sfide fra nazionali – anzi, si può sostenere che tutto, checché ne dica l’argent del Top 14 francese, o gli offload del Super Rugby, ruoti attorno a questi eventi – e loro sono abituati a vincerle tutte. Perfino le altre big dell’Emisfero Sud – invero lontane, soprattutto l’Australia, dai fasti di un tempo – partono “quasi” sconfitte contro i campioni del mondo. E di qui vogliamo passare, con due immagini che danno l’idea, nella rara caduta, della grandezza dei giganti. Che, si sa, quando cadono fanno rumore, ma restano tali quando si rialzano, pronti a difendere la propria grandezza.


L’impensabile è successo, infatti, lo scorso 15 settembre allo Westpac Stadium, Wellington, davanti a 34 mila spettatori (vincere sempre non stanca il tifoso…). Nuova Zelanda-Sudafrica ed ecco riscorrere, nella mente di ogni appassionato, le immagini. Un Sudafrica forse ancora col cartello lavori in corso (ko 32–19 in Argentina, in agosto) eppure seconda forza del Championship, il massimo torneo per nazionali al di sotto dell’equatore; un XV agguerrito, preciso e compatto come non mai. Un XV, quello di Rassie Erasmus – 36 test con gli Springboks da giocatore tra il 1997 e il 2001 – reduce dal ko di Brisbane con l’Australia, eppure sceso in campo con la grinta della serata giusta. La doppia meta di Aphiwe Dyantyi, l’ala-centro che quella serata non la dimenticherà per un po’, assieme a quella di Willie le Roux, veterano ormai espatriato in Inghilterra coi Wasps, e il guizzo di Malcolm Marx – cognome più che rivoluzionario – e Cheslin Kolbe.

5 mete a Wellington, cinquina a casa loro. A casa di quelli imbattibili, dei giganti. E un’esultanza finale, degli Springboks, simile a quella di chi vince la Coppa del Mondo; non un Mio Dio Fabio Grosso ma siamo lì, a ben vedere le immagini: un 34-36 (la rimonta finale stava per arrivare…) scolpito nella storia per il primo successo in 9 anni del Sudafrica in Nuova Zelanda. Una sconfitta, per gli All Blacks, che segna comunque una grandezza: quell’esultanza lì, per un test match “qualsiasi”, vuol dire che sei grande per davvero.

Menzioneremo adesso altri due incontri, una vittoria e una sconfitta. Si tratta del 15-16 ottenuto il 10 novembre a Twickenham a scapito dell’Inghilterra e del ko 16–9 all’Aviva Stadium, Dublino, davanti a 50 mila inferociti irlandesi. Entrambi i risultati, ognuno al proprio modo, confermano la grandezza degli All Blacks, tanto cinici nel violare Londra nonostante una prova da incubo e atti di superficialità non all’altezza della loro fama quanto osso duro da battere anche per un’Irlanda potenza n. 2 del ranking.
Nel tempio del rugby union, è stato un po’ il festival degli errori. Una Nuova Zelanda per certi versi irriconoscibile cedeva inizialmente all’Inghilterra; incapace di reagire ai colpi subiti, viveva un primo tempo da incubo, al cospetto di un XV forte e ben messo in campo da Eddie Jones. Tuttavia, la grandi squadre – chiedete a Fabio Capello, che in questo è stato maestro nel calcio – si riconoscono proprio nel momento della difficoltà, quando giocano male: sono concrete, le spingi ma non cadono. Ed è letale lasciar loro anche solo un 1% di possibilità di sopravvivere, non dare il colpo di grazia: nella rimonta, nelle mete e nei calci di Beauden Barret c’era tutta questa autorevolezza, una frustante e tuttavia dimostrata superiorità.
E se diversamente le cose sono andate in Irlanda – i detentori del 6 Nazioni sentono la pressione meno degli ingombranti vicini di casa – conviene osservare nuovamente l’esultanza: il XV dello Shamrock, potenza storica, blasonata e da sempre competitiva di questo sport, mai aveva battuto gli All Blacks davanti al suo pubblico. Mai, e ha esultato come avesse vinto un mondiale, come il Sudafrica di qui sopra: la gioia altrui, a strapparti quel ko casuale, vale più di una vittoria, come dimostrazione di forza.

Le immagini, più di mille parole, parlano da sé e depongono a favore di questa squadra leggendaria, non solo un brand ma un meccanismo oliato, perfetto negli automatismi, pienamente consapevole della sua missione (rappresentare il rugby in giro per il pianeta) e della sua supremazia. Proprio per questo, in vista della Rugby World Cup in Giappone, sono state sconfitte “utili”: perdere fa (anche) bene, specie se ti chiami All Blacks.