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Di Ancelotti e della mala educación (Non siamo qui per essere insultati)

Sono interessanti le reazioni susseguitesi all’idea lanciata da Carlo Ancelotti circa la possibilità di sospendere le partite causa insulti, come avviene in caso di condizioni atmosferiche avverse. La proposta è in sé peculiare, innanzi tutto perché proviene da un fior d’allenatore che in carriera ha dovuto molto sopportare (dagli attacchi di minima lega da parte di alcune tifoserie alle quasi sempre risibili ingerenze di presidenti convinti di capirne più degli allenatori), facendo però sempre buon viso a cattivo gioco, denotando una capacità di adattamento che, lungi dall’essere mancanza di polso, è stata una delle chiavi dei moltissimi successi mietuti.

Lontano dal modello di allenatore sergente caro a qualche collega (Mourinho Conte su tutti, tra i contemporanei), l’ex centrocampista di Roma e Milan si è distinto, da tecnico, quale ottimo gestore nell’amalgama degli atleti, preferibilmente talentuosi, a prescindere dalle propensioni caratteriali, riuscendo sempre (o quasi) a costruire squadre profonde, ricche di soluzioni e vincenti. Uomo di calcio e di campo: ai suoi tempi, il Carletto mediano sopperiva a uno scatto non proprio bruciante con una rara intelligenza tattica, cui univa una castagna da fuori niente male, qualità che più volte ha fatto scrivere il suo nome sul tabellino dei marcatori. Uomo di calcio e di spirito, portato alla mediazione, ma, traducendo in pratica un adagio della sua nuova patria pallonara, per niente fesso; dotato, anzi, d’un umorismo che senz’altro lo ha aiutato nel pluridecennale percorso da tecnico.

Insultare è un diritto?

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Leggendo e ascoltando in radio le risposte all’idea di considerare la sospensione di una partita (non la cancellazione…) quale deterrente a comportamenti eccessivi del pubblico si ha, a nostro parere, un’indicativa immagine della cultura (sportiva, ma non solo) del nostro paese. L’asse comune alla maggioranza delle repliche è, sostanzialmente, riassumibile in «Zitto e mangia… con tutto quello che ti paghiamo…». Come, se nella transazione contrattuale tra club e sportivo professionista, l’accettare d’esser riempiti d’insulti da parte di una massa di zotici con la bava alla bocca, praticamente senza volto né responsabilità, fosse una delle clausole vincolanti.
Non soltanto: come se, per diritto normativo o per una qualche decisione divina risalente alla notte dei tempi, lo stadio dovesse di necessità esser zona franca per lo scarico del livore collettivo, la cloaca di uno spirito massificato, la pattumiera degli umori di una comunità imbelvita.

Non si tratta di cedere ai principi del vituperatissimo politically correct, per quanto sia ancora da capire il motivo secondo il quale “essere corretti” dovrebbe ingenerare vergogna e comportare l’esposizione al pubblico ludibrio. A dire il vero, l’idea di una nuova norma che obblighi gli arbitri a sospendere il gioco, in sé, non ci piace affatto, così come quella (eppure sacrosanta, da un certo punto di vista) che la FIFA ha introdotto per vietare ai registi l’inquadratura di bellezze muliebri durante le “pause” naturali di una partita. Il punto è che ogniqualvolta il legislatore, o chi per lui, mette mano al codice su questioni “di costume”, è altissimo il rischio che la toppa sia peggiore del buco. Detto ciò, una sensibilizzazione sulla questione degli insulti (come su quella del sessismo delle inquadrature) è assolutamente legittima e, probabilmente, necessaria.

Non parliamo, certo, degli sfottò, del tifo contro, di tutto quell’armamentario retorico, spesso geniale, che ha da sempre prosperato nelle curve: che lo sport sia passione, non v’è dubbio, e che la passione generi moti non sempre armonizzabili al conveniente è senz’altro condivisibile. Ma salvare (com’è sacrosanto che sia) i tifosi napoletani, che al razzismo dei veronesi replicarono con l’icastico «Giulietta è ‘na zoccola», non può coincidere con lo sdoganare gli idioti che fischiano un diciassettenne per novanta e più minuti, asserendo: «Non ci sono negri italiani».

Perplessità

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Hanno senz’altro ragione da vendere, però, coloro che, alle parole del sor Carlo, storgono la bocca, sottolineando come il problema sia di cultura civica, e che a poco può servire una misura tanto peculiare, ristretta a un solo ambito come quello sportivo. La soluzione per le questioni culturali, dovrebbe essere cosa nota, abita nelle politiche educative, nell’istruzione, per quanto, a ricordare una simile ovvietà sembra di essere ironici, dando un’occhiata a quello che ci circonda [nell’articolo segnalato, a vergognarsi è un tale che, già in veste di politico, venne sorpreso a cantare canzonacce razziste durante una festa di partito: complimentoni. Nel frattempo, la notizia che nel mondo delle scommesse online prosperino le mafie pare non interessare a un Ministro dell’Interno super-presente nella comunicazione social: avanti così… N.d.A.].
Detto e ammesso tutto ciò, Ancelotti ha ben fatto nel sottoporre all’opinione pubblica un tema tutt’altro che secondario, le cui implicazioni ci paiono non meno interessanti.

Ovvietà (forse non troppo ovvie)

È dunque giusto ribadire, a questo proposito, alcuni minimi punti fermi che, pur potendo risultare banali, sembrano sfuggire al pensiero comune:

  • Il cliente non ha sempre ragione.
    Anzi, a ben vedere non ce l’ha quasi mai: senz’altro, non se si comporta con poca o nulla educazione.
  • Lo spettatore (ossia il cliente) di un evento sportivo paga per assistere all’evento in questione.
    Questo non lo autorizza, mai e poi mai, a oltrepassare un limite (d’educazione, di opportunità, di buon senso; tutte parole che aborriamo, ma che comunque conservano un significato) che, per quanto difficile da demarcare (e per questo non sottoponibile a una codifica normativa), ci pare comunque evidente, sacro e invalicabile
  • La passione sportiva non può giustificare qualsiasi cosa.
    Comportarsi da imbecilli o, peggio, da delinquenti all’interno di un impianto sportivo dovrebbe comportare lo stesso tipo di sanzione (simbolica e non) che verrebbe comminata se lo stesso atto si svolgesse in un qualsiasi altro ambiente.

Tutto questo, come si comprenderà, non ha niente a che vedere con il censurare il tifo, castrare la partecipazione popolare, limitare la libertà d’espressione.
Un conto è l’impeto, sano, naturale, liberatorio, sotteso dagli sfottò, pure aspri, pure acerrimi (fanno parte del gioco, di una retorica legata alla natura popolare e passionale di un divertimento collettivo), tutt’altro conto è bersagliare una persona, uomo o ragazzo che sia, oltre il limite dell’accettabilità, magari facendo leva, più o meno scientemente, su meccanismi oppressivi, razzisti e violenti.
Non cogliere la differenza, lampante, conclamata, tra i due casi è come minimo da sprovveduti, ma, più probabilmente, da conniventi.