L’ovale azzurro alla scalata del Caucaso
Come ogni anno, l’arrivo dei test match novembrini rappresenta una prima occasione per operare un bilancio sull’avvio di stagione, in un’ottica complessiva, non limitata al solo ambito della Nazionale né a quello del rugby di franchigia o club. Se l’abbrivio della lunga annata 2018-19 (quella che condurrà, teniamolo a mente, al Mondiale nipponico tra meno di dodici mesi) era sembrato arridere al rugger tricolore, le settimane successive agli esordi in Pro 14 da parte di Zebre e Benetton (rispettivamente sesta e quinta nei relativi gironi) hanno puntualmente fatto registrare un parziale raffreddamento degli ardori iniziali.
Le tre recenti sberle al sapor di stout rimediate al cospetto del rugby d’Irlanda caricano ancor più di preoccupazioni la partita dell’Artemio Franchi che, sabato, vedrà opposta agli Azzurri una Georgia che può far paura.
Andiamo con ordine: nelle ultime due giornate della ex Celtic League, la Benetton Treviso ha registrato due sconfitte casalinghe: contro i campioni d’Europa del Leinster (sabato 27 ottobre) e con i loro connazionali de facto dell’Ulster (sabato scorso). Partite assai diverse: nella prima, vista personalmente sugli spalti di un Monigo in ristrutturazione, coach Crowley ha fatto rifiatare i più esperti, rinunciando ad Allan in mediana, permettendo ad alcuni prospetti di vedersela contro una mischia che, per larga parte, coincideva con quella della nazionale verde, trionfatrice del Sei Nazioni 2018. Le conseguenze: 5 minuti d’ardimentosa resistenza, una timida reazione a metà primo tempo (3-12 al riposo) e, al rientro, l’impressionante ritorno dei Dubliners per il definitivo e perentorio 3-31. Decisamente meglio, sette giorni dopo, davanti ai meno straripanti nordirlandesi: incoraggiante 7-3 al 40’ (meta di Faiva e trasformazione di Tommaso Allan) e “puntuale” involuzione dopo la pausa, con due tries rimediate in 10’ (44’ e 54’), limitando il passivo a 16’ dal termine. Un onorevole 10-15 che rischia però di ridimensionare le prospettive dei Leoni, adesso a 7 lunghezze dagli Scarlets, terzi nel gruppo B.
Nella stessa serata, in quel di Chicago, si consumava il pesantissimo 54-7 con cui la nazionale irlandese regolava la giovanissima Italia schierata da Conor O’Shea: primo tempo discreto (un 14-7 da quelli che potrebbero presto essere primi nel ranking di World Rugby può sempre starci), con la più classica delle riprese “da incubo” (6 mete) di fronte ad avversari obiettivamente imprendibili.
Non che le aspettative potessero discostarsi da quanto s’è visto: dei tre incontri citati, soltanto quello interno tra trevigiani e franchigia di Belfast sarebbe stato alla portata, ma, di certo, non sono queste le migliori premesse per affrontare, come “sistema”, i prossimi test che vedranno Italrugby ospitare la già citata Georgia, poi l’Australia (Padova, 17 novembre) e gli All Blacks (Roma, 24 novembre).
Tanto più che i problemi di organico, tra le file azzurre, sono all’ordine del giorno: a partire da chi potrà essere schierato come estremo, date le defezioni dell’ottimo Matteo Minnozzi (se non sarà sfortunato col fisico, potrebbe essere il 15 del prossimo decennio italiano), di Edoardo Padovani e persino quella non ancora certa di Jayden Hayward, costretto all’infermeria sabato scorso, in occasione della non memorabile prestazione in biancoverde contro i già citati nordirlandesi. Unico vero candidato per il posto, al momento, Luca Sperandio: giocatore di ruolo, giovane di belle speranze, ma reduce da una pessima prestazione sull’erba americana, al primo cap azzurro da titolare (terzo in tutto). Una brutta prova contro i georgiani potrebbe addirittura “bruciare” un classe ’96 che, magari, avrebbe solo bisogno di calma, di essere “aspettato”; ma, si sa, le esigenze da tutto e subito che lo sport moderno impone poco o nulla concedono alla giusta tempistica d’una maturazione tecnico-fisica. Le alternative potrebbero essere un Carlo Canna adattato, idea sfiziosa ma con qualche rischio, o Guglielmo Palazzani: da estremo ha giocato più volte con la maglia delle Zebre, ma non sembra poter assicurare il giusto mix di potenza, inventiva, tecnica e reattività preteso dal ruolo, specie sul palcoscenico internazionale.
Non sono questi gli unici dubbi a turbare i sonni toscani del tecnico irlandese: tra i temi centrali della tornata novembrina la successione di Sergio Parisse, in chiave sia simbolica, per l’abbandono da parte del capitano degli ultimi due lustri, sia, soprattutto, tecnica, perché, negli ultimi quindici anni, se c’è stato un “scoglio” cui più volte la Nazionale s’è aggrappata nei (frequenti) momenti difficili, questo è stato senz’altro il nostro splendido numero 8. In terza linea, l’ovale italiano ha, negli ultimi tempi, registrato la presenza di talenti interessanti (in vista di sabato si dà per certo il ricupero anche di Sebastian Negri), ma la perdita di Sergione non sarà affatto facile da colmare.
A meno che, e non sarebbe la prima volta nella storia degli sport di squadra, l’assenza del fuoriclasse non dia origine a una generale assunzione di responsabilità del gruppo, il quale, quasi “liberato” da una sorta di perverso alibi, trova nuovi ed efficaci equilibri. È la speranza di O’Shea, e di tutti, Parisse incluso.
Il match di sabato con la Georgia, dei tre alle porte, è quello da vincere sì o sì, anche perché un risultato diverso potrebbe essere carico di conseguenze poco piacevoli: da tempo, i caucasici stanno aspirando al salto di categoria, ossia l’approdo al fatidico Tier 1, con l’eventuale (ma per adesso non troppo probabile) mutamento del Sei Nazioni. C’è chi sostiene l’ipotesi d’un avvicendamento proprio con la deludente Italia (molto arduo che le cinque “nobili” rinuncino a una trasferta primaverile a Roma, preferendole Tbilisi: motivi tecnici ma non solo), chi quella d’un allargamento della formula, addirittura a 8, con la Romania, altra ipotesi tutt’altro che semplice. Di certo, una vittoria a Firenze in casa nostra, segnerebbe un momento storico per l’ovale georgiano, con ricadute pesanti pure su quello del Belpaese.
L’unico precedente a livello di “nazionali vere” è davvero troppo distante per rassicurare: il 31 a 22 di Asti risale, infatti, al settembre di 15 anni or sono, poco prima dei mondiali australiani, e i più recenti “agganci” con selezioni azzurre non sono stati, comunque, troppo probanti, posto che l’ultimo incrocio è datato 2010, e nella vittoria 21-3 dell’Italia A fu Luciano Orquera, coi suoi calci, a essere decisivo. Troppa acqua sotto i ponti, da allora.
Non vogliamo sembrare troppo pessimisti, perché non è solo l’Italia ad aver problemi: gli uomini guidati dal neozelandese Milton Haig non è che se la stiano passando splendidamente, e il loro 2018 è costellato di successi “previsti” (contro le parigrado Belgio, Germania, Spagna, Russia e Romania), ma pure di sconfitte contro Giappone e Fiji, con il solo hurrà contro Tonga a impreziosire la tournée boreale dello scorso giugno.
La parola al campo, dunque, in attesa delle formazioni che saranno annunciate domani, sperando che, sabato pomeriggio, il Franchi sia gremito come ai bei tempi di Batistuta, a prescindere dalla differenza di forma del pallone.