Dall’Italia all’Europa, tra neo-calcio e pratiche vecchie
Se qualcuno ci chiedesse di definire con un solo termine l’attuale momento del calcio italiano, non avremmo dubbi: strabismo. È all’insegna d’una divaricazione inusitata, attiva a più livelli, che sembra improntarsi la stagione in corso, portando a quasi compimento dinamiche non certo ignote al pallone contemporaneo, ma che, comunque, potrebbero presto segnare un punto di non ritorno dai contorni ancora nebulosi.
Da un lato, si registra il ricupero d’un blasone e d’una dimensione continentale da parte delle migliori di Serie A. Su tutte la Juventus: mediante l’acquisto della super stella, ha trasmesso un inequivocabile segnale alle avversarie, d’Italia e d’Europa, circa le proprie fondatissime aspirazioni stagionali. Operazione sportiva, ma anche e soprattutto simbolica: l’arrivo del fuoriclasse di Madeira rappresenta il superamento della fase da out-sider continentale (con le finali 2015 e 2017 affrontate da sfavorita) e l’auto-candidatura al circolo esclusivo delle “grandi”, cui sono iscritte, di diritto, Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco, Chelsea, Manchester United e Liverpool, nonché, per caratura economica, Manchester City e Paris SG. Una super lega di fatto, che continua a spingere per uno sfruttamento sempre più intensivo delle risorse, in ogni senso: dal numero di partite stagionali all’ulteriore frastagliamento degli orari (la doppia fascia, 18.55 e 21, dei turni di Champions non è casuale: è il soffritto per lo “spezzatino” anche in Europa, dopo aver adottato la pratica in tutti gli altri grandi campionati), sino all’elaborazione di nuove competizioni o all’ipotetica valorizzazione delle “minori” già presenti, come l’International Champions Cup, ancora vago torneo amichevole tra grandi da svolgere nei mesi estivi.
È, questo, il calcio dei brillantini, delle patinature, quello cui mira tutto il mondo elevandolo a modello e obiettivo, un Empireo da ammirare e invidiare, come accade già negli stadi odierni, con gli scintillanti privé riservati agli sponsor e agli spettatori più illustri (leggasi: ricchi). Bello, brutto, chissà: abbiamo la nostra idea, ma non è questo il punto.
La questione è che a questa sorta di post-calcio, fatto di comunicazione interstiziale, di high lights (termine infausto) reiterati all’infinito, di narrazione calcolata, si affianca tuttavia un mondo tanto sbiadito quanto reale, e non preferibile al primo, composto da vecchie facce, vecchie pratiche e vecchi vizi. Il calcio della vergognosa gestione dei casi di Serie B e C, quello degli impianti invivibili quanto ad accessi, servizi, financo ai più banali sia per i tifosi (trattati più da intrusi che da clienti) sia per i collaboratori giornalistici che vi si recano a lavorare (ne avremmo da scrivere pagine e pagine), il calcio della sempre più crescente distanza tra le squadre migliori e una classe media mai così evanescente.
Si diventa, appunto, strabici nell’assistere a un’ordinaria Udinese-Juventus, con la sensazione che si tratti d’un match di boxe tra pugili di categorie troppo distanti tra loro, poco importa quanto regga una difesa velleitariamente arcigna, se quasi sino alla fine come a Frosinone o, come in questo caso, una ventina di minuti.
C’è pure da dire una cosa che, ci pare, nessuno abbia ancora notato, eppure evidentissima: ai giocatori juventini “terrestri” devono aver implementato nei contratti una sorta di “premio passaggio” per CR7 (stimiamo sui diecimila per ogni tentativo riuscito), tanto è smaccata la ricerca del portoghese da parte di qualsiasi compagno, di reparto o meno, appena ricevuto il cuoio. Non è un caso che, al primo appuntamento senza l’Eletto, in Europa, il sino ad allora opacissimo Dybala si sia portato via il pallone per averne messe tre, qualcosa di più che un mero indizio su quanto il gruppo di Allegri viva tuttora un momento interlocutorio causa l’inserimento di un campione che, in carriera, da funambolo di fascia s’è trasformato in mortifero terminale.
Lo strabismo è pure quello, va detto, d’un giornalismo italiano che, finché il super-campione gioca all’estero, fosse pure il club più forte del mondo, allora se ne può parlare se non come d’un Tyson, come d’un Kobe Bryant “qualsiasi” (il vizietto degli sportivi a infilarsi in questionacce di mutande dovrebbe essere affrontata seriamente, e non con la ritrita sindrome di Eva, per la quale è sempre la donna ad aver, sotto sotto, le colpe: “abbiamo” un problema, è evidente), vicissitudini legali incluse. Apposta la firma con la Signora, il soggetto in questione diventa magicamente intoccabile, la (brutta) storia che lo coinvolge derubricata a bagatella causa pulzella profittatrice, e via andare con la storiella del bravo padre di famiglia (riposi pacifico Carlo Petrini e con lui la sua mai troppo scorsa bibliografia).
Lo strabismo è, infine, anche quello di campionati nazionali, e l’andazzo europeo non si discosta dal nostro, sempre “meno allenanti” (lo si diceva, un tempo, per la Bundesliga, benché quest’anno il Bayern stia faticando non poco), col risultato di presentare a ogni turno una serie di partite alquanto “inguardabili” se non con quella sorta di doping che è il tifo per una delle contendenti. A quanto, dunque, l’approdo a una super lega continentale?
Sia chiaro: non siamo entusiasti di questo, tutt’altro. Siamo nati coi tornei nazionali quali manifestazioni “principali”, e le coppe a far da ciliegina sulla torta: ricordavamo a memoria le formazioni di A e B, e adesso manco sapremmo dire con certezza i club che giocano in cadetteria (e questo a prescindere dal caos gestionale). Nella divaricazione in essere, leggiamo un progressivo, e di certo sciente, “svuotamento” di senso per le varie Serie A, Liga, Premier League, nell’approdo, potremmo stimare nell’arco di cinque-dieci anni, a tutt’altra struttura per il pallone europeo (e forse mondiale).
La terza coppa europea di cui si discuterà a dicembre in sede UEFA, infatti, non è (ahinoi) il ricupero della bellissima Coppa delle Coppe (a dispetto di una storia per niente semplice): tutt’altro. Sarà, invece, il tentativo di dar seguito a un’idea di calcio multinazionale che vedrebbe la Champions quale sorta di Serie A, l’Europa League come seconda divisione e la nuova coppa alla terza piazza. Una sorta di applicazione su larga scala di quello che si sta sperimentando con la Nations Cup: un sistema di retrocessioni/promozioni tra i suddetti tornei e l’abbandono, certo non completo, dei tornei nazionali: chissà se la passione popolare, alimentata dai vari campanilismi, terrà in piedi un microsistema che rischia di avere ragione d’essere soltanto come bacino di atleti per i club di livello continentale.
Di certo, i cambiamenti prossimi venturi sono meno distanti di quanto si immagini, lambendo pure questioni non inessenziali circa la portata culturale del fenomeno calcio, non da ieri peculiarissima cartina tornasole, anche in chiave politica, delle nostre società. È paradossale, infatti, che in un’epoca di progressivo avanzamento di movimenti sovranisti e populisti particolarmente aggressivi, per non dire smaccatamente pericolosi, il governo del pallone si stia lentamente muovendo verso forme d’aggregazione sovranazionali. Non ci illudiamo: sempre si tratta di logiche di profitto, peraltro su vastissima scala, quindi qualsiasi ideale è da considerarsi bandito (solo gli ingenui possono credere che gli spot antirazzisti degli sportivi non siano mera, e pure un po’ pelosa, strategia di marketing), ma sarà interessante capire come gli assetti futuri dello sport potranno rispecchiare, e pure influenzare, le visioni del mondo e della società che toccheranno da vicino sia noi sia i nostri successori.
Come sempre, il calcio è una cosa seria: la meno importante tra quelle fondamentali, la più fondamentale tra quelle meno importanti.