Proviamo ad accontentarci
Guardandola così, quest’Italia ha effettivamente poco di innovativo. Sì, il CT, sì, nomi giovani, ma rispetto agli anni recenti e tristi, poco è risultato diverso. A prescindere dall’attaccamento del popolo azzurro: Dall’Ara tutt’altro che pieno, clima comunque vivo, ma non così passionale.
Non interessa più, la Nazionale? No, non è così. L’Italia ha sempre suscitato brividi e polemiche, è amata da tutti, seguita da pochi. Nel corso degli anni, il tifo si è trasformato: molto più vero e verace nei confronti delle squadre di club, sempre più flebile verso i colori azzurri, e mettiamoci anche vita quotidiana, situazioni politiche, e contesto generale quotidiano a influire.
L’Italia di Mancini ha come obiettivo, dichiarato, quello di riavvicinare il tifoso alla Nazionale. Processo lungo e dispendioso, sicuramente, che passa in primis da ciò che gli azzurri sanno fare sul campo. Perché vincere produce soddisfazione e orgoglio, e un’Italia forte fa parlare e fa spingere il petto in fuori. Contro la Polonia, ancora tante cose da sistemare, per Mancini. A prescindere dalle scelte fatte in termini di convocati, la sensazione è che il gruppo continui a sbattere contro il solito problema legato all’organizzazione tattica. Insufficiente, ma com’è ovvio che sia: nel calcio moderno serve tempo e concentrazione, serve conoscersi e lavorare. Perciò, il mestiere del selezionatore, negli anni, si è trasformato in qualcosa di sempre più specifico: da convocare, non i più forti ma quelli più “giusti”.
Ieri sera, azzurri impalpabili e disordinati, trascinati dall’impeto dei ragazzini: dopotutto, son loro il futuro di questa Nazionale. Bene Chiesa, bene Bernardeschi, Jorginho non ha acceso la luce ma ha fatto bene l’unica cosa fondamentale che si è trovato a fare, Balotelli chissà dov’era, Mancini si è sgolato ma a Bologna, la sua Italia, si è dimostrata lontana dalle sue stesse idee. Dunque, al lavoro: tempo ce n’è, e meglio prendersene tanto. Per voltare pagina, per tornare a innamorarsi dell’azzurro.