Il numero 8 rappresenta anche il simbolo dell’infinito per i suoi tratti sinuosi e per la continuità delle sue curve, nel calcio assume toni anche fisici: rappresenta la corsa senza sosta, il rombo del motore, il tuono quando il cielo si fa plumbeo.
E c’è chi corre da ragazzino con un unico sogno in mente, quel tipo di sogno che non fa dormire la notte, quello di cambiare pantaloncini e maglietta comprate in un qualsiasi negozio di abbigliamento sportivo e indossare la divisa della propria squadra del cuore. Quel ragazzino di nome Claudio Marchisio il proprio sogno lo ha realizzato anni fa e, sinceramente, a noi sembra abbia avuto contorni ancora più da romanzo d’altri tempi.
Eh sì; perché un conto è approdare in un grande club già vincente e consolidato altra cosa è arrivare in prima squadra facendo tutta la trafila fin dalla tenera età di sette anni. Quando sei in un club come la Juventus ci si aspetta non solo di arrivarci in prima squadra, ma anche di vincere tutto e subito, sì con dedizione e cultura del lavoro ma anche senza troppi particolari patemi.
E invece no; a te, Claudio, è stato riservato un percorso diverso. A te è toccato essere il primo della nuova era quando la tua Juve era in Serie B. Scommettiamo che se te lo avessero raccontato a dodici anni, non ci avresti creduto? Sei stato il numero 8, quel numero 8 riservato ad atleti come Parola, Hansen, Cuccureddu, Marocchi, Deschamps, Conte e tanti altri, del riscatto nell’epoca più buia per i tifosi bianconeri.
Hai preso per mano la Vecchia Signora e l’hai riportata lassù dove è abituata a stare e non c’è addio o rescissione che possa scalfire la stima che il popolo juventino nutre per te e come tu stesso hai ritenuto di scrivere sui social.
Adesso, a 32 anni, difficile trovare ancora un posto in un reparto che può offrire poco spazio, e la tua Juventus ti ha salutato così.
Ci sarà tempo per tornare, caro Claudio, ma in questo momento la tristezza comune, a prescindere dalla fede, è quella di un addio, di un calcio che comunque sia è cambiato, di un capitolo che si chiude. Perché, come scrive Sergio Bambarén, la vita stessa è una lunga sequenza di addii: c’è un addio all’infanzia, alla giovinezza, e persino all’amore.