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Avellino, epilogo triste. Le lacrime di D’Angelo, il ricorso, la voglia di crederci ancora

Si ammainano le bandiere, si torna a casa. L’afa romana si mischia alle lacrime dei tifosi per il verdetto definitivo del Collegio di Garanzia. Dalle aule del CONI viene emessa una sentenza che sembra beffarda: l’Avellino è in possesso dei criteri di idoneità e sostenibilità finanziaria per disputare il campionato di Serie B, ma il ricorso non è stato impugnato nei termini previsti. La notizia si sparge, c’è un supporter speciale con una polo verde che piange inconsolabile in un angolo: è Angelo D’Angelo, di Ascea, provincia di Salerno, capitano dei biancoverdi, uno che nel 2009, dalle polveri della Serie D, aveva accompagnato i lupi nell’arduo percorso di risalita. Simbolo dell’era Taccone, per l’ambiente di appassionati il principale artefice di questo pasticcio, e che ora davanti agli occhi ha l’incubo di un passato che già ha vissuto. I tifosi si sono recati nella capitale con il loro beniamino e Gigi Castaldo: spesso criticati, ma in fin dei conti sempre amati intensamente. Ogni storia d’amore che si rispetti, d’altronde, ha questo tipo di alti e bassi: la passione, poi, si vede nel momento della verità. E si è stretto tutto insieme il popolo biancoverde nel giorno più lungo, quando la mannaia della giustizia sportiva stava per colpire dopo infausti presagi: in realtà il sostegno non è mai mancato, le centinaia di tifosi che hanno cantato davanti al Palazzo del Coni, facendo sentire il loro grido fin nelle stanza dell’udienza, sono la voce dell’essenza stessa dello sport. E il popolo biancoverde la sua battaglia l’ha sicuramente vinta.

La scontro in aula tra l’Avellino, la FIGC, e una Ternana speranzosa di ripescaggio è stato duro, ma all’insegna del fair play, secondo il legale che difendeva gli interessi degli irpini, Eduardo Chiacchio. Ora si lascia il campo dello sport e si va nell’amministrativo, resta aperto lo spiraglio del Tar, ricorso da affrontare in tempi strettissimi. L’avvocato che aveva più volte salvato la squadra, con cui sente un legame viscerale, ritiene che ci siano ancora gli estremi per un esito felice, e la speranza si ricava proprio da alcuni punti della sentenza, quando si riconoscono i requisiti all’Avellino. Il presidente Taccone si dice “schifato”, Chiacchio consiglia alla società un collega esperto per proseguire la battaglia, ma la frittata è stata fatta, cavillo burocratico o meno, l’impressione è quella di un grande pasticcio. Un’altra, impressione, può essere quella di un regolamento da rivedere. Ci si chiede, e l’interrogativo non riguarda solo i cuori biancoverdi, come si possa inguaiare una formazione con più di 100 anni di storia, che ha conquistato sul campo, con onore, salvezze e play-off, per una fideiussione senza rating. Oppure La società si è inguaiata da sola perché i criteri della Covisoc erano stati diramati chiaramente, a sentire la controparte. Qualcun altro dirà che Chievo, Foggia e Parma l’hanno scampata pur con peccati maggiori e che gli irpini invece sono stati condannati a ripartire da zero.

E cosa resta? Resta il racconto di sciarpe biancoverdi strette al collo nonostante il caldo; la speranza e la voglia di lottare contro un destino che già sembrava segnato. Resta una qualità che la piazza avellinese aveva già dimostrato nelle trasferte, quando i cori assordanti provenivano dal settore ospite guadagnandosi rispetto e simpatia in tutta Italia. Ma la famosa sciarpata che qualche anno fa incantò lo Juventus Stadium in Coppa si vedrà lo stesso, comunque vada a finire questa storia all’italiana, nel bene e nel male. Si riparte da qui perché, in un modo o nell’altro, si dovrà ripartire, da qualunque campionato, con qualsiasi giocatori, con la stessa fede.