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Di padre in figlio. Un’eredità raccolta, ma una favola senza lieto fine

Foto: Twitter @Pschmeichel1

Quando Kasper Schmeichel si trovò a difendere i pali del Manchester City per la prima e unica volta nel derby con i Red Devils, papà Peter era lì a guardare proprio come in Croazia-Danimarca di qualche giorno fa, non in Russia, ma sugli spalti di quello che poi sarebbe diventato l’Etihad Stadium. In tribuna uno dei portieri più forti della storia del calcio, in campo uno sbarbatello, figlio d’arte, che a 21 anni ancora da compiere si affacciava sui grandi palcoscenici con addosso un’etichetta gravosa da togliersi, quella del raccomandato. Terza partita in Premier per il baby Schmeichel, all’alba della stagione 2007-2008. Fine agosto, un posto da titolare guadagnato per l’infortunio di Isaksson, prima dell’esplosione di Joe Hart, in panchina Sven Goran Eriksson con la responsabilità di portare i Citizens ai vertici del calcio inglese ed europeo: erano i primi passi del City milionario che conosciamo adesso, quello che allora decise di puntare anche su talenti del nostro campionato come Rolando Bianchi e Valery Bojinov.

Partita assolutamente speciale per la famiglia Schmeichel. Kasper affrontava la sua squadra del cuore, dovendo fare i conti con un amore scaturito dalla lunga militanza paterna tra le file dello United: prima di un grande e forse inutile tradimento, come la penserebbero almeno quelli che il calcio lo interpretano con il cuore, perché Peter dopo quasi 400 partite in rosso aveva deciso di “macchiare” la sua carriera con un’ultima stagione al City, e poi appendere i guantoni al chiodo. E nel 2002-2003 lo sgarro ai suoi vecchi tifosi si abbinò a un piccolo dispiacere statistico, aldilà del vederlo con indosso la maglia dei rivali, del muso di Gary Neville, che incrociandolo nel tunnel rifiutò di stringergli la mano, un attimo prima di entrare in campo: il portierone danese mantenne in tal modo lo speciale primato di non aver mai perso un derby di Manchester.

In coincidenza con le scelte del padre, Kasper è cresciuto nelle giovanili del City, nonostante la fede primordiale. Il 19 agosto del 2007 i riflettori sono puntati su Eriksson, e sul piatto forte del mercato: Elano. Ma c’è spazio anche per osservare come si comporterà il giovane Schmeichel, dopo le due partite d’esordio archiviate nel migliore dei modi (clean-sheet), quando, nel derby, il pallone può scottare o scivolare di più. Pronti-via, Kasper deve opporsi due volte a Nani: e le reazioni di papà non sono tanto diverse da quelle appena viste negli ottavi di questi Mondiali contro la Croazia. Sospiri ed esultanze ripetute, l’ultima in una delle prime uscite a vuoto del rampollo, quando dopo aver bucato clamorosamente su un corner di Giggs, vide Carlitos Tevez tutto solo metterla fuori da due passi. Quel match lo decise la meteora brasiliana Geovanni, prima dell’erroraccio dell’argentino, che qualche anno più tardi si macchiò anche lui del grande tradimento.

Per Kasper sembra l’alba di un grande futuro: qualche altra partita da titolare, poi la panchina, infine un destino lontano da Manchester. Un percorso da piccolo portiere di provincia, poi il Leicester. Delle Foxes diventa una bandiera, una colonna della storica vittoria in Premier con Claudio Ranieri. La sua reputazione cresce, le sue imprese non sono paragonabili a quelle del padre, campione d’Europa con la Danimarca nel 1992, mattatore di trofei con lo United dal ’91 fino al ’99, anno in cui si congedò da capitano con uno storico Treble. A Russia 2018, il suo primo mondiale, la storia gli dà un’altra possibilità di allinearsi ai fasti delle gesta paterne: e negli ottavi contro la corazzata croata la coglie, para tre rigori (uno a tempo scaduto a Modrić), alimenta il sogno danese dei quarti fino alla lotteria finale. Dove però c’è un altro portiere che fa la voce grossa, Subasić: l’estremo difensore avversario stoppa infatti un penalty in più del collega. Bravo e fortunato.

Una buona Danimarca lascia i Campionati del mondo con in bocca un retrogusto dolce: un storia di vita come tante, sublimata da un palcoscenico di rilievo. Un grandissimo e un grande portiere, due generazioni a confronto con lo stesso cognome, oppure semplicemente l’immagine di un padre che guarda il figlio giocare rendendosi protagonista di esultanze ferventi, come accade in tanti campetti di provincia. Un tifoso d’eccezione che dopo una sera di passioni, con un tweet ringrazia, non solo il suo Kasper, ma tutta la Nazionale, di cui fu capitano nella sua avventura più bella. È la lezione dello sport, il particolare effetto di ingrandire e illuminare un episodio simile a tanti altri, forse solamente un po’ più speciale. Nulla di così diverso, insomma, da quella domenica di agosto del 2007, quando un papà emozionato si rivide per un attimo negli occhi inesperti del suo erede. Ora si può dirlo, aldilà del palmares: l’eredità è stata raccolta.