Intendiamoci: a nostro parere, separare il calcio, e lo sport in generale, dalla politica, è impresa impossibile. L’elenco non contiene solo provocazioni (pensiamo al celeberrimo podio dei 200 metri di Messico ’68, con Smith e Carlos), perché i grandi avvenimenti sportivi, loro malgrado, sono stati anche teatro di violenze terribili (l’eccidio di Monaco ’72, con 11 israeliani uccisi). Inoltre, non è un mistero che, spesso, queste manifestazioni a visibilità planetaria sono la vetrina di Stati emergenti o, talvolta (ci vengono in mente le Olimpiadi di Berlino del 1936 e i Mondiali di calcio in Argentina nel 1978) di dittature.
In tutto questo, si inserisce la polemica per l’esultanza di Xhaka e Shaqiri dopo le reti segnate alla Serbia. Un gesto, quello dei due giocatori di origine balcanica, che ha indispettito ovviamente, a tutti i livelli, gli avversari, creando imbarazzi e polemiche anche in patria. Intervistato dalla RSI, il presidente dell’Associazione Svizzera di Football (ASF), Peter Gilliéron, si è detto fiducioso di una chiusura senza danni della vicenda: “Non sono sorpreso, perché mi aspettavo succedesse qualcosa. Se verranno prese sanzioni? Credo che la decisione arriverà in tempi brevi. Preferisco comunque pensare al calcio, sono contento di quanto fatto finora, e dell’atteggiamento del gruppo.”
Nello specifico, i due giocatori rischiano una squalifica di due turni. Anche le dichiarazioni post partita del ct serbo Mladen Krstajić sono oggetto di valutazione da parte della FIFA. La vicenda, come prevedibile, ha (ri)aperto un grande dibattito oltre confine. Il tema è quello, caldissimo, dell’integrazione, del rispetto delle origini, del comportamento da tenere indossando la maglia di un Paese terzo (tra l’altro, storicamente neutrale) come la Svizzera la quale, su questo tema, ha una visione differente da quella che possiamo avere noi residenti nella Penisola, visto che la Confederazione è Stato di immigrazione estera da generazioni, diversamente dall’Italia.
Sul tema, il collega Giona Carcano del Corriere del Ticino aveva intervistato, prima della partita, il giocatore del Lugano di origine serbo-bosniaca Dragan Mihajlović. Il centrocampista bianconero, cresciuto calcisticamente in Svizzera, dove risiede fin da quand’era bambino, aveva sostenuto di essere riconoscente al proprio paese ospitante, e che non ha alcun dubbio su dove risiedere con la famiglia. Tuttavia, aveva poi aggiunto che avrebbe tifato Serbia. Come, del resto, tifano per gli Azzurri tanti nostri amici svizzeri con passaporto rossocrociato di seconda o terza generazione, che abbiamo conosciuto fin dai trascorsi studenteschi, in quel di Ginevra.
Semplificando, le posizioni sono tre: c’è chi dice che non abbiano fatto nulla di disdicevole; chi sostiene che, se avevano di queste pulsioni, avrebbero dovuto fare scelte diverse, giocando con le nazionali balcaniche (meno blasonate, come sappiamo), e chi ritiene, infine, che il gesto non andasse fatto, perché poco rispettoso, e del tutto fuori contesto. Ovviamente, con tutta una serie di sfumature, che riguardano le tre posizioni principali.
Avevamo espresso, alla vigilia, un auspicio, riportando le parole di Valon Behrami, non a caso uno dei leader della squadra: “Il campo da gioco non è un campo di battaglia. Non rinnego le mie origini, sono consapevole delle problematiche politiche, ma oggi gioco per la Svizzera, e noi giocatori siamo un esempio, soprattutto per i bambini.” Siamo certi che il centrocampista dell’Udinese, nato in Kosovo, abbia convinzioni politiche simili, visto che l’aquila albanese se l’è fatta tatuare. Però, venerdì sera, si è limitato a giocare al calcio, evitando gesti e atteggiamenti che potessero essere strumentalizzati e, magari, provocare reazioni potenzialmente pericolose per gli spettatori in tribuna.
È vero che, in Russia, sembra che anche i tifosi più esagitati abbiano perso la voglia di comportarsi in modo violento. Tuttavia, abbiamo visto a Genova, tempo fa, cosa sono capaci di fare alcuni sostenitori serbi, oltre ad avere ancora negli occhi l’immagine di Reggio Emilia in stato d’assedio, nell’estate 2016, per l’arrivo, al Mapei Stadium, degli ultras della Stella Rossa di Belgrado.
Concludendo, la pensiamo come Valon: lo sport sia strumento d’incontro, e non di scontro, soprattutto nelle manifestazioni di giubilo pubbliche. Logico che la politica faccia parte della nostra cultura e quotidianità; tuttavia, da sempre lo sport è occasione di avvicinamento e di pace, fin dall’antichità, quando venivano interrotti i conflitti per consentire lo svolgimento dei Giochi Olimpici. Saremo fuori moda e dal mondo, ma continuiamo a pensarla così.
Spostandoci più a Nord, abbiamo preso atto delle reazioni razziste e fuori luogo (segnalateci anche da alcuni amici svedesi) che sono seguite alla sfida con la Germania, da parte di qualche tifoso scandinavo, al di là delle polemiche per il dopo partita (che la Mannschaft ha chiuso, intelligentemente, con un Tweet di scuse). Bersaglio degli insulti e delle minacce via social il terzino della Nazionale Blågul e del Tolosa Jimmy Durmaz, nato a Örebro, ma di origine aramaiche, reo di avere concesso ai tedeschi il calcio di punizione decisivo.
Nel filmato, il giocatore esprime il proprio dispiacere per il risultato della partita, si scusa per il proprio errore sul campo, ma dichiara di non accettare insulti e minacce dovuti alle sue origini, e chiede retoricamente ai compagni cosa ne pensino del razzismo. La risposta della squadra svedese, che condividiamo, anche se normalmente non usiamo (e non ci piace) il turpiloquio, la potete vedere (e, soprattutto, ascoltare) qua sotto: