Cinquant’anni fa, il momento scelto per indicare il cambiamento del mondo. La musica trainava il rapido flusso di novità, di diritti conquistati e da conquistare, dopo anni di lotte, di sperimentazioni e sedimentazioni. Un pianeta diviso in due blocchi, un cuore che già da tempo batteva per il calcio. Per la terza edizione dei campionati europei, l’UEFA scelse l’Italia come paese ospitante, una nazione che viveva gli ultimi virgulti di un’escalation economica che la stava conducendo tra le prime potenze mondiali. E al termine del decennio in questione, il Belpaese poteva guardarsi indietro, godere di freschi ricordi di dominio calcistico.
Le storie di sport avevano eletto Milano come capitale del vecchio continente, con gli ultimi eroi della Grande Inter desiderosi di lasciare l’impronta anche in Nazionale; con un trionfo mancante dal ’38, a quattro anni dal primo successo in Coppa del Mondo, la prima ospitata dal nostro paese. C’era una bella fetta della sponda rossonera che aveva appena conquistato lo scudetto, non c’era un nutrito blocco Juve, c’era Rombo di Tuono Gigi Riva, c’era Dino Zoff, allora portiere del Napoli. C’erano gli inglesi, ancora i maestri del calcio, campioni del mondo in carica e finalmente vincenti; c’erano le temibili compagini del blocco rosso, Jugoslavia E URSS. Per la prima volta furono introdotti i gironi di qualificazione tra le 31 squadre partecipanti, poi un play-off valido come quarto per decretare le 4 nazionali della fase finale. Era un mondo in bianco e nero pronto a colorarsi. Non c’erano ancora i calci di rigore, non c’era San Siro tra le tre strutture-teatri di una manifestazione ancora allo stadio embrionale. C’era il “Comunale di Firenze”, prima che si chiamasse Artemio Franchi.
Se oggi la selezione azzurra, esclusa da Russia 2018, è reduce da amichevoli di lusso ed è in procinto di rifondazione, mentre ci si interroga su questioni del tipo “Balotelli-capitano”, la Nazionale di allora, ai primi di giugno, doveva riscattarsi dal brutto mondiale del ’66. Sulla panchina Ferruccio Valcareggi, vice di Fabbri nella sfortunata spedizione inglese: uno di quelli che non poté negare di aver sottovalutato la Corea del Nord, in una delle più significative débâcle della storia sportiva italiana. Cancellare l’onta, fronteggiare le orde slave e il magistero inglese: questa la missione, dopo uno spareggio al cardiopalma contro la Bulgaria. Il 3-2 di Sofia aveva fatto tremare molti, il ritorno vittorioso in casa permise all’Italia di giocarsi l’Europeo.
Primo match al San Paolo, bloccato, tattico, con l’Italia che si impegnò a non subire gol contro l’URSS. Infortunio di Rivera, supplementari, poi reti bianche inevitabili con un accesso alla finale da decretare con il lancio della monetina, perché la lotteria dei rigori non c’era ancora, come accennato. L’arbitro Tschener si ritrovò a essere dunque boia o propiziatore delle ambizioni italiane nel giro di pochi secondi. Capitan Facchetti e Scesternev si recarono negli spogliatoi, l’azzurro scelse testa. Dopo il primo lancio, la moneta si incastrò in una fessura. Il secondo fu quello buono, con Facchetti che rientrò in campo sorridente, custode del gaudente verdetto: l’Italia era in finale.
Di fronte, la Jugoslavia, giustiziere dell’Inghilterra di Bobby Charlton, trascinata dal fulmine Drazen Džajić, convinta di essere favorita contro i padroni di casa. La convinzione continuò ovviamente anche quando l’attaccante della Stella Rossa portò in vantaggio i suoi; la speranza, azzurra, si accesee invece con l’arcobaleno di Domenghini, o “Domingo”, che a 10 minuti dalla fine regalò pareggio e ripetizione dell’ultimo atto: decidere con il sorteggio l’atto finale sarebbe stato troppo. Così, due giorni dopo l’Olimpico poté raccontare un’altra storia: un’Italia inizialmente appannata venne rivoluzionata dai cinque cambi di mister Valcareggi. Entrò Gigi Riva, che mise la freccia con una rete che per anni è stata considerata erroneamente in fuorigioco; la chiuse un giovane Anastasi, con un po’ di fortuna in dinamiche di un calcio che non c’è più. L’ultima fotografia, un Olimpico in festa a suggellare il trionfo azzurro. Un’immagine di cui iniziamo a sentirne un po’ la mancanza.