Il cinismo del fato può manifestarsi nella possibilità negata a un interprete di incidere su un evento. Sono ostacoli, veti, per imbrigliare chi, con le proprie capacità, può davvero scaturire verdetti rilevanti. Poi c’è chi non crede nel destino e dovrà ammettere che a volte certe coincidenze siano davvero spiacevoli.
Nel calcio, come in molti altri sport, una finale è l’ultimo atto di un percorso che può vanificare o glorificare l’intero cammino, un appuntamento in cui dettagli, casualità e occorrenza possono farla da padrone. Sostenitori della giustizia agonistica vorrebbero che due formazioni si affrontino al massimo della loro forma, con la possibilità di sparare tutte le cartucce. Molte volte non è possibile (stileremo un elenco di esempi che hanno fatto storia), ma c’è anche chi è si è rovinato con le sue stesse mani. L’input di questo discorso è innescato dai fatti di Kiev, dove sulla terza Champions consecutiva del Real, sulla cocente sconfitta del Liverpool, c’è una buona dose di quella che comunemente viene definita sfortuna.
E non si parla solo delle papere di Karius, su quelle c’è anche, per essere benevoli, una dose massiccia di poca abilità, peraltro già risaputa da molti esperti del settore. Ci riferiamo piuttosto all’infortunio di Mohamed Salah dopo il “contatto” con Sergio Ramos: le lacrime dell’egiziano hanno fatto il giro del mondo, un rude scontro di gioco gli ha negato di colpo la possibilità di determinare gli esiti della finale, di mettere la freccia nella corsa al pallone d’oro con il rischio aggiunto e concreto di saltare i Mondiali con il suo Egitto.
Basta riavvolgere il nastro di qualche giorno per un altro esempio di sventura, occorso stavolta a Payet leader del Marsiglia, costretto ad abbandonare il terreno di gioco prematuramente, nella finale di Europa League. Una maledizione che il fantasista francese sembra essersi procacciato personalmente, con il tocco audace della coppa al momento dell’ingresso in campo. Un gesto che gli ha concesso solo 30 minuti prima dell’infortunio per mettere un sigillo mai arrivato in una partita finita male, almeno per i francesi.
A giovarne, l’Atletico Madrid, squadra che di finali di Champions League ne aveva perse due negli ultimi 4 anni, entrambe proprio con i rivali del Real, altro sale sulla ferita aperta in due occasioni perse per salire sul tetto del mondo. Ad alzare il trofeo questo maggio, il secondo europeo dell’era Simeone, c’era anche Diego Costa, centravanti dal cuore colchonero che, nel 2014, dovette abbandonare il palcoscenico principe di una stagione che lo aveva visto assoluto protagonista. Dopo aver steso il Chelsea in semifinale, e firmato con 27 reti il trionfo in Liga, dovette astenersi dalla battaglia praticamente a inizio match per il riacutizzarsi di un problema al bicipite femorale, defezione che una cura medievale a base di placenta di cavallo non era riuscita a risolvere. Oltre il danno la beffa per gli uomini del Cholo, che dopo aver perso un elemento che avrebbe potuto decidere la contesa, si erano portati avanti facendosi raggiungere solo a tempo scaduto, proprio da Sergio Ramos, uno che come abbiamo visto è abituato a decidere sempre le finali, qualunque sia il modo.
Dai club alle nazionali, con tanti collegamenti ad azione prolungata di Karma: nel 2014 il Real centrò la décima grazie agli strappi di Di Maria, ai gol di Cristiano Ronaldo. L’argentino dimostrò di essere un trascinatore anche nel mondiale brasiliano, con la solita ricetta di assist e corsa, e il suo zampino nel pericoloso ottavo di finale con la Svizzera. Poi un problema muscolare nel match contro il Belgio lo costrinse a non scendere più in campo per il resto del torneo, con un triste epilogo osservato dalla panchina, e l’impossibilità di opporre tecnica e talento a un ineluttabile destino che decretava la sconfitta in finale dell’Argentina, di nuovo contro la Germania, come nel ‘90. Due anni più tardi, a CR7 invece mancava solo un trionfo in nazionale come aggiunta di lusso al suo ricco palmarès: quando dovette abbandonare la sala da ballo senza neanche un passo della sua danza di finte ubriacanti, molti si struggevano per le lacrime di un campione inerme. Urlando contro un cielo che sembrava voler mostrare ineluttabilmente il suo favore ai padroni di casa della Francia. Si sbagliavano, perché ai supplementari la decise Éder, uno che con Cristiano Ronaldo può avere in comune solo la nazionalità, ma che ha avuto l’onore, la fortuna di sostituirlo nello scrivere la pagina più importante del calcio portoghese solo il cielo di Saint Denis.
Da Ronaldo a Ronaldo, da Saint Denis a Saint Denis, perché il Fenomeno il 12 luglio del ‘98 era tante cose: fra le tante, l’indiscusso dominatore del calcio, nonché ultimo ostacolo tra la Francia e la prima Coppa del Mondo della sua storia, da alzare proprio sul suolo patrio. R9 la giocò tutta quella partita col suo Brasile, anche se sotto forma di ectoplasma, con l’incapacità di mettere in apprensione le maglie della difesa bleu. Le convulsioni accusate dal leader verdeoro impedirono ai sudamericani di alzare la coppa, così come la doppietta di Zidane. Già, Zizou, fresco beneficiario di molteplici regali dalla sorte alla guida del suo Real, un campione che da giocatore decise varie finali nel bene e nel male. Inutile approfondire i suoi ultimi minuti di calcio giocato, quando nell’ultimo atto di Berlino diede di testa, per farla breve e ironica. Nel primo paragrafo, si parlava di chi si fosse rovinato con le sue stesse mani: ci riferivamo proprio a lui.
Infine, chiudiamo la trafila con un evento che ha segnato irrimediabilmente la generazione calcistica italiana. Bastano due espressioni per fare mente locale: rigore sbagliato, e numero 10 sulla schiena. C’è un tiro che si alza sopra i pali difesi da Taffarel, c’è un codino che nell’occasione più importante della sua vita decise di cambiare l’esecuzione di un colpo che gli era riuscito tante, forse troppe volte. E la sfera va in alto nel cielo di Pasadena, dissolvendo i sogni di gloria azzurri. Roberto Baggio e Beppe Baresi non dovevano giocare la finale di USA ’94: atleti normali avrebbero rinunciato. Acciaccati entrambi, rimasero in campo fino alla fine; il divin codino disputando 180’ anonimi dopo un torneo da protagonista e trascinatore, il capitano del Milan dopo un recupero lampo e fantascientifico che non solo lo riportò sul terreno di gioco, ma gli permise di disputare una partita commovente. Purtroppo cade sui loro errori dal dischetto la responsabilità materiale dell’insuccesso: si stampa in quel pomeriggio torbido di una terra che del calcio sapeva ben poco, una delle immagini più struggenti e affascinanti del mondo sportivo. Destino o coincidenze, queste sono opinioni: ciò che resta indelebile sul campo sono le lacrime, le emozioni di chi ha inciso non potendo incidere, la voglia di lottare fino all’ultimo, di chi viene trascinato a forza negli spogliatoi. Con il rammarico e l’impotenza di aver mancato l’appuntamento più importante, con po’ di fastidio per non aver potuto mettere il sigillo alla gioia, per esser rimasto nella mischia mettendo a rischio la propria reputazione. Con la consapevolezza, però, di aver fatto di tutto per scrivere una pagina che poi magari hanno scritto gli altri o un destino rivelatosi beffardo.