Editoriali

L’antidoto è parlare di calcio

Dopo l’eliminazione della Roma a vantaggio del Liverpool, il tema degli errori arbitrali ha monopolizzato il discorso calcistico degli ultimi due giorni. Sia chiaro: è normale, è fisiologico e non è neanche così grave. Se non per il fatto che, purtroppo, poi di calcio si parla ben poco. Sono piovute infatti teorie del complotto varie – la UEFA odia le italiane, Real-Liverpool era la finale giusta per le televisioni (?), ecc. – e si è trascurato il vero dato, la vera considerazione.
Come ripartire, dopo quanto successo mercoledì all’Olimpico? Basta spingere per per il Video Assistant Referee (VAR) anche nelle coppe europee, per placare la sindrome d’accerchiamento e in un certo qual modo la sete di vendetta (sportiva)? La sensazione è che basterà solo a metà: resterà chi è convinto che sia tutto già scritto (vedi Inter-Juventus e la crociata contro Orsato) e chi, anche dinnanzi al ragionamento razionale (se è davvero complotto, complimenti all’assistente arbitrale che sbandiera il fuorigioco a Džeko immaginando che proprio da quella azione arriveranno fallo e rigore!), non vorrà in ogni caso sentire ragioni.
Non resta, a questo punto, che parlare del football e dei suoi protagonisti. E magari una pagina dattiloscritta dedicata a una sfera che rotola su un prato verde farà sparire, per 10 minuti, tutte le dietrologie di cui sopra.

Da Soccernomics di Simon Kuper. Foto via Google Books

Inizio io, da buon autore della proposta. C’è un calciatore che in pochi menzionano e che invece è il grande protagonista di questa Champions League. O almeno, uno dei suoi principali eroi. Non parlo, scorrendo l’XI con cui Jürgen Klopp ha passato il turno qualificandosi alla finale della maggior competizione continentale per club, di Momo Salah (abbiamo già dato). O del sottovalutato Roberto Firmino, calciatore intelligentissimo e perfetto per questo sistema, o di quel Sadio Mané freccia imprendibile a larghi tratti tra andata a ritorno contro i giallorossi. Sono elementi già sotto i riflettori e tutti ne conosciamo, o ne abbiamo scoperto, le qualità, a lungo decantandole.
Voglio soffermarmi su chi di questo Liverpool è l’anima e indossa la fascia di capitano, militandovi dal lontano 2011, con alti e bassi diventati sempre più alti sotto la gestione Rodgers prima e Klopp poi. Un vero tuttofare, motorino che mai si stanca e che ha rappresentato la sua nazionale 38 volte sinora; le ha vissute tutte, in un certo qual modo, e mai s’è arreso. Pure quando il mercato aveva provato, dopo un inizio singhiozzante e inadeguato ai livelli di un club 5 volte campione d’Europa, a parcheggiarlo e piazzarlo ovunque in Premier League e dintorni.

Giunto dal Sunderland, fucina di talenti ma anche supermarket costoso e spesso poco comodo per via dei prezzi, Jordan Henderson era arrivato nella Merseyside nell’estate 2011 per 18 milioni di €. Aveva colpito ma non proprio impressionato con i Blackcats e in tanti furono critici, all’epoca, nei confronti di Kenny Dalglish. Fu una situazione strana, se vado indietro coi ricordi: King Kenny era una leggenda – un po’ come se Arrigo Sacchi tornasse al Milan! – e ti sentivi un po’ un iconoclasta a criticarne mosse, scelte, tattiche e acquisti. Henderson ma soprattutto Stuart Downing e Andy Carroll furono, in quel 2011-2012 concluso con la vittoria della Coppa di Lega ma un deludentissimo piazzamento in campionato, più luci che ombre. Ed erano stati pagati cari, a prezzo salatissimo: la prova che i giocatori inglesi sono monodimensionali, pagano il salto nelle big, deludono in proporzione agli investimenti, et cetĕra.
Del trio Downing e Carroll, non senza lottare, finirono per comprendere di essere piombati, effettivamente, in una realtà più grande di loro. Ma Henderson no, non smise mai di lottare e lavorare su sé stesso e sul proprio gioco.

L’esonero di Dalglish – fu un po’ come togliere San Patrizio all’Irlanda… – spalancò le porte a Brendan Rodgers, col suo calcio imparato alla scuola dell’Europa Mediterranea e una filosofia da rivoluzionare. A volte a parole (troppe), a volte col football: da lì l’annata 2013-2014, il quasi titolo, i record di Suárez, lo scivolone di Gerrard. In tutto questo Hendo si trovava benissimo, anzi era l’unico a darsi da fare, correre e stantuffare nel centrocampo di una squadra sbilanciata e votata al gioco offensivo. Collaborando con visione di gioco alla creazione di calcio, anche. Ma non era ancora nulla di trascendentale: con indosso la maglia dell’Inghilterra, ne vedevi i limiti e le difficoltà appena esposto a un tipo di gioco diverso da quello della Premier League, a basso ritmo non sapevi che fartene.

Il vero salto di qualità è arrivato, come accaduto con altri calciatori, sotto Klopp. Molta la retorica che ruota attorno a questo personaggio, ma qualche volta pure i sofismi ci stanno bene: non è un Re Mida che trasforma in oro tutto quello che tocca ma uno che sa quando si può lavorare con un giocatore, sa come trasformarlo e dove portarlo. Henderson è un 1990 e aveva 25 anni al momento dell’ultimo passaggio di consegne ad Anfield: in tanti avranno pensato fosse troppo tardi per diventare un giocatore europeo e stare bene in Champions League. E invece…
… È arrivato a essere il calciatore che è. Si fa trovare ovunque, da vero capitano che indossa una fascia pesante, quella lasciata in eredità da Steven Gerrard, ed è diventato scouser per adozione. Idolo dei tifosi per dinamismo, qualità, competenza e conoscenza del football.

Ecco, il merito è del tecnico ma anche di un uomo, questo 28enne dai mille polmoni, che non s’è mai arreso. Pure quando gli dicevano che non aveva la stoffa, che era inadeguato a questi livelli, una zavorra da cui liberarsi.
Mi è piaciuto parlare della sua storia, dell’unico titolare del Liverpool che è in rosa dai tempi in cui società e uomini mercato non ne azzeccavano una, e che ora è un vero top. Silenzioso ma efficace.
E ora sotto, di nuovo a parlare di arbitri e complotto. Noi il nostro lo abbiamo fatto parlando di calcio.

Published by
Matteo Portoghese