Arsène Wenger non sarà più il tecnico dell’Arsenal a fine stagione. Giusto così, al termine di 22 anni rivoluzionari, ad attraversare tutta la Premier League col suo carico di novità, innovazione e cambio di passo.
Non se la stava passando bene l’alsaziano – uno dei tecnici più brillanti, non solo l’aziendalista troppo spesso descritto dalle pagine dei giornali negli ultimi anni – con un Arsenal giunto evidentemente a fine ciclo. E che ciclo, direi!
Nel suo palmarès, 3 titoli nazionali alla guida di uno dei club più vincenti della storia del calcio inglese. Nel 1996, quando ebbe inizio l’avventura di Le Professeur sulla panchina un tempo di George Graham, Bill Clinton era presidente degli Stati Uniti d’America, il conservatore John Major – erede di Margaret Thatcher – viveva al n. 10 di Downing Street, Oscar Luigi Scalfaro era Capo dello Stato in Italia.
Da quel 1 ottobre sono cambiate moda, cultura, politica. E anche lo sport non è più lo stesso. A una sola cosa eravamo abituati: vedere quell’alsaziano sulla panchina dei Gunners, ora ci hanno tolto pure quella.
Primo non britannico a guidare la squadra di Highbury prima ed Emirates poi, Wenger ha costruito i suoi successi spesso pescando promettenti giovani a basso costo, costruendo piano piano – passo dopo passo, formica più che cicala – campioni come Patrick Vieira, Nicolas Anelka, Cesc Fàbregas, Kolo Touré, Robin van Persie ed Emmanuel Eboué. A volte (ri)lanciandoli (che presa Jens Lehmann a 1,5 milioni di £!) sui grandi palcoscenici: c’è chi a Londra ha avuto il top della carriera e chi invece è andato oltre, affermandosi poi anche altrove. Indimenticabile la stagione 2003-2004, quella degli Invincibili: Premier League vinta senza patire sconfitte, con 26 vittorie e 12 pareggi su 38 gare.
Importanti anche le rivalità coi colleghi. Da quella con Sir Alex Ferguson (Manchester United) – l’altro longevo, l’altro che ha fatto finire un’epoca pochi anni or sono – a quella con Rafa Benítez (Liverpool), per non parlare di José Mourinho nelle due parentesi al Chelsea come nell’attuale esperienza a Old Trafford. In tutti questi anni, AW ha visto avvicendarsi sulle panchine dei rivali un tecnico e poi un altro ancora: esoneri, dimissioni, contratti scaduti e lui era sempre lì, sicuro come una roccia.
Ha trasformato il calcio inglese, ha reso la Premier League ciò che ora è. Un torneo multiculturale, un crogiuolo di scuole tattiche diverse. È mancato, forse, il coraggio del salto definitivo: pure quando sono finite le ristrettezze economiche figlie dell’investimento del nuovo stadio, è rimasto fedele alla sua filosofia. Ha comprato, sì, grandi campioni (Özil, Sanchez, etc.) ma senza fare all-in sul mercato. Quasi dovesse dimostrare sempre qualcosa, cavarsela alla sua maniera.
Se le FA Cup messe in bacheca nel 2014–15 e 2016–17 avevano interrotto un digiuno di successi capace di far storcere il naso pure al più aziendalista dei tifosi, la mancata qualificazione alla Champions League – il record di piazzamento nella top 4 è stato a lungo il vanto dei Gunners – ha definitivamente rotto il “giocattolo”. Non sembra bastare, stante il sesto posto in campionato, nemmeno la semifinale di Europa League conquistata dopo il doppio confronto col CSKA Mosca.
Ma, forse, proprio da qui possono ripartire i tifosi dell’Arsenal, che saranno sotto shock dopo l’annuncio del (futuro) addio di quello che per molti di loro sarà sempre il tecnico della loro squadra del cuore. Chiudere questa lunga e bellissima avventura sollevando al cielo un trofeo continentale sarebbe il più bello dei saluti. Il miglior modo di separarsi.