“Camera ardente”, mai parole furono usate meglio. La grandine che si è abbattuta su Firenze nelle prime ore del mattino, infatti, non è servita a molto, perché ad ardere, di passione e amore puro, è il cuore di tutta la città. Ecco, allora, il sole a far capolino, una prima aria di primavera, forse ingannevole, ma sufficiente per dare calore al ritorno della salma di Davide Astori da Udine, da una fredda aula d’obitorio prima e autopsia dopo. Sulla cancellata antistante la tribuna centrale dello stadio “Artemio Franchi” non c’è più un buco libero. Chi porta una foto, chi una sciarpa, chi un fiore, chi un oggetto personale, chi la maglia numero 13, quella che non si aggrapperà più sulle spalle di nessuno in riva all’Arno, perché è troppo il dolore e la responsabilità che porta con sé.
Anche il più estraneo ai fatti non può non essere coinvolto: “Scusi, sa domani se c’è lo sciopero dei mezzi? Ah, però, che belli questi fiori e che bravo ragazzo doveva essere“, mi chiede un anziano signore che passa davanti allo stadio. Storie di gente comune, semplice, come era Davide Astori. Questo fatto del calciatore è solo per le copertine dei giornali, lui è sempre stato uguale a se stesso, come quando dava i calci a un pallone nella bergamasca, come quando ha fatto il primo giorno di scuola. Come quando ha segnato il suo primo gol in Serie A. Indovinate contro chi? Si, proprio lei, la Fiorentina.
Destino dolce e beffardo della sua vita. La folla è scorrevole come l’Arno, non impetuosa come nell’alluvione tragica del ’66, ma placida come un ruscello di montagna. Silenziosa. Rispettosa. Amorevole. I messaggi dei bambini, spontanei e massacranti nella loro candida verità, sono quelli che strizzano di più il cuore. E pensi a quello, malandato a quanto pare, di Davide che, educatamente, come il suo padrone, ha scelto di non svegliarlo dal suo sonno per portargli via la vita.
Firenze non dimentica mai i suoi campioni. Tutti quelli passati per Piazza della Signoria, non solo le rockstar, ma anche gli addetti alle luci. Ce ne accorgiamo al Bar Marisa, quello di fronte allo stadio, dove campeggiano non solo le immagini di Batistuta (che piange fin dall’altra parte del mondo, bomber di lacrime e sentimenti) e Roby Baggio, ma anche quelle di Quagliarella e Christian Riganò, perché anche la Florentia Viola è stata storia.
Un veloce passaggio ci porta dritti a Coverciano, il cielo da viola si schiarisce in azzurro, ma anche lì lo sfondo del quadro non cambia. La fila di tifosi si fa lunga man mano che passano i minuti, come un nastro di pasta che il panettiere allunga sempre di più, sempre di più. Non se ne vede la fine.
Passano Pioli, Corvino, Veretout, Biraghi, Falcinelli (c’è da poco, ma non conta), passa uno che di fasce da capitano se ne intende: Manuel Pasqual. Passano tutti, pian piano, uno alla volta. In silenzio. L’allenamento è annullato, c’è un amico da ricordare, bisogna stargli vicino, fino all’ultimo istante. Il feretro arriva alle 14.40, alle 16.30 apre la camera ardente, arde per davvero con la n.13 che campeggia su una bara terrificante per la sua immobilità. Vorremmo tutti che Astori uscisse da lì dentro e corresse dritto al campo d’allenamento. Perchè non c’è da perder tempo. Domenica c’è il Benevento.