Ricorda sempre che Nick Foles ha vinto un Super Bowl
“Io, se Philadelphia vince, piango!”
Derek Barnett ha appena raccolto il fumble di Tom Brady, nella giocata che deciderà il 52esimo Super Bowl. Quella che fa dire alla persona di fianco a me che piangerà qualora gli Eagles vincano. E, badate bene, costui non è un casuale spettatore del Super Bowl a cui hanno detto che i Patriots hanno cinque anelli e gli altri zero. A cui hanno appena spiegato che Brady è il più grande giocatore di sempre, a cui hanno illustrato che in generale Philadelphia non nasce città vincente, nello sport come nella vita.
No, nulla di tutto ciò. Anzi, potrebbe spiegare a molti la carriera del 12 di New England, potrebbe analizzare il fatto che, QB e tight end esclusi, la rosa di Phila è sicuramente migliore di quella dei Patriots.
Ma noi tutti abbiamo voluto, mentre Barnett dava il primo Vince Lombardi alla città dell’amore fraterno, dare significati iperbolici alla vittoria di Nick Foles e soci. Lui incluso. Chi vi scrive incluso. Abbiamo voluto sorprenderci, e apporre l’etichetta mistificante di “miracolo” a quanto successo nella notte di Minneapolis.
Ci abbiamo creduto davvero, fino a commuoversi, a piangere. Perché ne abbiamo bisogno tutti, di un miracolo ogni tanto, anche solo guardato in TV.
Non siamo gli unici. Qui c’è addirittura chi dice che Dio abbia deciso da che parte stare.
Sei giocatori degli Eagles sono stati battezzati nella vasca di reazione del complesso di allenamento nell’ottobre scorso. Inoltre sempre Nick Foles ha esternato la volontà, una volta smesso col football, di diventare pastore. Frank Reich, offensive coordinator ora corteggiato da altre franchigie al momento senza allenatore, è un fervente cristiano e la guida spirituale della squadra.
Freschi battezzati anche Zach Ertz, autore dell’ultimo touchdown della stagione degli Eagles, e il QB titolare Carson Wentz, che ha dovuto farlo per potersi sposare.
Implicazioni divine ed emozioni auto-imposte che distruggono in un attimo di lucida follia la fredda analisi tecnico-tattica.
Secondo ProFootballFocus, questi sono i rating – numero che rappresenta il rendimento di un giocatore durante la stagione – di alcuni membri della rosa degli Eagles:
Patrick Robinson, cornerback: 90,4
Fletcher Cox, linea difensiva: 90,7
Brandon Graham, pass rusher: 91,0
I loro dirimpettai dei Patriots sono tutti inferiori. Il caso emblematico è Elandon Roberts, linebacker che ha un rating di 40.9 contro le corse. E Philly ha due signori runningback in Jay Ajayi e LeGarrette Blount.
I numeri, quindi, dicono che Philadelphia è superiore in molte zone del campo, anzi tutte tranne nei ruoli di quarterback e tight end (Brady e Rob Gronkowski giocano uno sport diverso dal resto della NFL).
Insomma, domenica abbiamo visto una squadra superiore battere una squadra inferiore. Ma questo non ci ha impedito di piangere alla fine.
Sempre domenica sera sono tornato a casa alle 5. Ho tolto il giubbotto, l’ho lanciato da qualche parte e mi sono reso conto che stavo ridendo. Pensavo al fatto che Nick Foles, una riserva, avesse vinto il Super Bowl contro i “grandi” Patriots.
Appena realizzato chi fosse in realtà Foles, ho smesso immediatamente di sorridere. Mi sono ricordato che a Canton, Ohio, nella hall of fame, c’è una teca speciale. “Maggior numero di touchdown passati in una sola partita: 7”.
Dentro due magliette, la 18 dei Denver Broncos e la 9 dei Philadelphia Eagles. Un supereroe americano, Peyton Manning, 5 volte MVP della lega, l’Euclide del ruolo di quarterback, colui che era l’offensive coordinator di sé stesso, chiamava gli schemi, li cambiava, diceva ai wide receiver come muoversi in campo e insegnava ai linebacker a difendere contro gente come lui; d’estate insegna ai ragazzi più promettenti della Nazione a giocare e dai suoi camp, per esempio, sono usciti Russell Wilson e Derek Carr.
In quella teca con lui c’è Nick Foles. Novembre 2013, 7 touchdown contro i Raiders. In tre quarti di gioco, poi fu tolto per essere risparmiato.
Anche sapendo che quel record giunse in condizioni atipiche, un Super Bowl nella carriera del 9 di Philadelphia non deve e non può sembrare una completa casualità.
Non ci sono dubbi: i campioni NFL 2017 non sono un miracolo. Il miracolo sono i Red Sox che nel 2004 rimontarono da 0-3 nella serie con gli Yankees, nel Bronx e con Mariano Rivera sul monte. Il miracolo sono i Dallas Mavericks che umiliano nel 2011 i Lakers di Phil Jackson per 4-0 e poi tolgono il primo titolo ai Big Three di Miami. Il miracolo è gara-7 vinta 2 a 1 dai Penguins a casa dei Detroit Red Wings di Lidstrom, Zetterberg, Datsyuk nel 2009. La Helmet Catch di David Tyree nel Super Bowl del 2007 è un miracolo.
Nei giorni successivi ho però capito la vera ragione per cui mitizziamo alcune imprese sportive.
Mi arriva un messaggio da una persona che confessa una certa difficoltà a concludere un lavoro. Quando ci arrivano richieste di conforto di questo tipo probabilmente siamo spiazzati: sospesi tra la difficoltà di dare un consiglio e quella, facendolo, di sbagliare e complicare ancora di più la situazione.
Ecco che però mi viene il colpo di genio. Rispondo solo: “Ricorda sempre che Nick Foles ha vinto un Super Bowl!”
Tanto basta, dopo qualche giorno problema risolto. Alla fine era sufficiente crederci, come fatto da Foles.
L’ex giocatore dei Rams, non importa cosa farà da qui in poi, rimarrà sempre il simbolo di questo meccanismo. Un feticcio, da richiamare quando abbiamo un problema, quando facciamo da “riserva”, quando nessuno crede in noi. Lui e i Philadelphia Eagles del 2017: forti, ma nel ruolo di sfavoriti, incompresi ma con tutte le carte in regola per essere addirittura la migliore squadra NFL. Chi lo sa, forse sono già una dinastia ma non ce ne rendiamo conto.
E allora ben venga piangere. Ben venga dire che sono la squadra favorita di Dio. Ben venga stupirsi che alla fine siano loro i campioni. Probabilmente dei campioni preannunciati, nella realtà dei fatti, ma degli “underdogs” per noi. La favola degli sfavoriti, che in realtà non sono mai stati.
Lo erano solo nella nostra, debole, mente. Che spesso ha bisogno dello sport per credersi un po’ più forte.