Diciamocelo, il 2017 è stato un anno di mutazione e di cambiamenti per il calcio femminile italiano. E credeteci, lo è stato anche per il calcio femminile in tutto il mondo.
Quello che era nato come un grido isolato è cresciuto nel tempo ed è diventato un suono gutturale, come quello dei grandi felini quando avvistano la preda da lontano e preparano l’attacco. In molte parti del mondo è stato l’anno del risveglio, della lotta e delle condizioni da dettare, o della rottura del velo per mostrare le miserie che fino ad ora si erano accumulate come polvere sotto il tappeto semplicemente per non guardare come si stavano trattando le calciatrici nel globo.
Se dobbiamo dare a qualcuno l’inizio, bisogna darlo alle calciatrici americane, che hanno lottato già dal 2016 per avere più rispetto da parte della loro Federazione e che hanno ottenuto prima dal Senato americano (approvata all’unanimità) una legge che introduce la parità di salario tra uomini e donne nella Nazionale di calcio e poi la nascita della “Girls’ Development Academy“, una selezione dei più importanti 25 club calcistici femminili americani per migliorare il processo di sviluppo del calcio femminile in America.
L’inerzia del cambiamento è stata lenta ma inesorabile. Prima ci sono state le rivendicazioni delle calciatrici delle nazionali della Nigeria e del Ghana che, durante la Coppa d’Africa, hanno tenuto dei sit-in e delle pacifiche proteste per non essere mai state pagate. Poi è stata la volta dell’Argentina, con la nazionale femminile che ha rivelato come le calciatrici siano pagate 150 pesos (circa 8€) per ogni seduta di allenamento, con moltissime giocatrici costrette a trovare un altro lavoro e impossibilitate a raggiungere gli standard atletici richiesti dalla AFA.
Subito dopo è stata la volta dell’Irlanda, nella civilissima Europa, dove le calciatrici hanno confessato le loro “umilianti” condizioni: costrette a cambiarsi nei bagni degli aeroporti prima delle gare perché dividono gli spogliatoi con i ragazzini, senza una paga adeguata e spesso lasciate in alberghi dove non ci sono le benché minime speranze di avere un servizio decente. In Europa però ha fatto rumore soprattutto la Danimarca: le calciatrici si sono rifiutate di giocare un’amichevole contro l’Olanda per protestare sulle condizioni imposte loro dalla Danish Football Association (DBU) finché non sia trovato un accordo per loro soddisfacente. A tutt’oggi quell’accordo non è stato trovato.
L’accordo invece lo ha trovato la Norvegia: i calciatori della nazionale maschile norvegese hanno accettato di ridurre i loro compensi, dal 2018, per renderli uguali a quelli delle loro colleghe della nazionale femminile, da sempre assai inferiori, come nel resto del mondo. Come ha affermato la calciatrice Sanne Troelsgaard Nielsen “non vogliamo negoziare per diventare ricche, ma per assicurarci di poter vivere di calcio e poter raggiungere le aspirazioni della Federazione calcistica danese.”
Dall’altra parte del mondo c’è stato l’addio di Abby Erceg, stella della nazionale della Nuova Zelanda, che ha affidato a Instagram il suo addio: “Lascio la Nazionale per alcune circostanze sfortunate e sfavorevoli. Senza nessun motivo per giustificare la mia presenza qui un minuto di più, mi farò da parte nella speranza di creare il cambiamento per le presenti e future generazioni delle calciatrici neozelandesi”.
Lo scorso settembre si è raggiunto forse il punto più basso: la 32enne stella brasiliana Cristiane ha annunciato il suo ritiro con un video dal forte impatto emotivo e dal messaggio inequivocabile: “Penso che questa sia la sceltà più dura che io abbia mai fatto in tutta la mia carriera ma non vedo altre soluzioni considerando tutto quello che è successo. E proprio per questo non ho più la forza di lottare. Ho lottato per 17 anni ma ora non ce la faccio più. È così dura ritirarsi perchè questa squadra era il mio sogno, vincere una Coppa del Mondo, una medaglia d’oro olimpica era tutto quello che ho sempre sognato.” Cristiane ha abbandonato il calcio attaccando la Federazione, rea di non pagare gli stipendi alle calciatrici e di aver cambiato l’allenatore contro il parere delle calciatrici. D’altronde stiamo parlando di una nazione dove il coordinatore del calcio femminile, Marco Aurelio Cunha, aveva dichiarato che la crescita del calcio femminile era semplicemente dovuta al trucco, ai bei capelli e ai pantaloncini corti.
In giro, nel mondo, Olanda, Stati Uniti, Svezia, Scozia e Norvegia hanno siglato nuovi accordi con le loro Federazioni calcistiche in termini migliorativi: la discriminazione è ancora ben presente nel calcio femminile, come si evince da quanto raccontato finora. Secondo il rapporto pubblicato dalla FIFPro World Players’ Union lo scorso 15 dicembre, la metà delle 3.500 calciatrici professioniste intervistate lamenta il fatto di non essere pagata dal proprio club di appartenenza e il 60% viene pagata meno di 600€ al mese. Ben il 90% delle calciatrici sta meditando di abbandonare la carriera sportiva.
Pochi giorni fa, sul canale Twitter dell’Unione mondiale delle calciatrici, campeggiava l’ultimo messaggio di protesta: “Sconvolgente: dormire sull’autobus, stipendi miseri, condizioni inaccettabili. Per favore sosteneteci”. Come ha detto Cristiane in lacrime nel suo video di addio “ragazze, siate unite e combattete per le cose che non cambieranno la vostra vita ma cambieranno la vita di chi verrà dopo di voi”. Questo deve essere l’anno del cambiamento. Questo deve essere l’anno delle tigri.