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Svizzera, il male oscuro della Challenge League

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È notizia di pochi giorni fa che, in Challenge League, il Wholen ha rinunciato a richiedere, per la prossima stagione, la licenza per poter disputare, nella prossima stagione, il campionato cadetto. Di fatto, quindi, la compagine argoviese verrà retrocessa d’ufficio, qualunque sarà la posizione in classifica. Tutto ciò premesso, neppure il Wil, dopo la fuga degli investitori turchi, se la sta passando benissimo. Campionato falsato, come minimo, e interesse sportivo che si abbassa di molto, almeno per la maggior parte delle squadre, non coinvolte nella lotta per il primo posto.

Come ben sa chi ci legge, non è purtroppo la prima volta che questa evenienza si verifica. Per trovare un campionato regolare, dobbiamo infatti tornare al 2014, anno dell’ultima retrocessione, sul campo, di una squadra della Challenge League svizzera: toccò al Locarno (attualmente a rischio fallimento, ma questa è un’altra storia), quell’anno, abbandonare il calcio che conta.

L’anno prima, infatti (il primo con la nuova formula a 10 squadre, uguale a quella della Super League) le Bianche Casacche erano state ripescate a causa del fallimento del Bellinzona, in una serie cadetta che vedeva ben 4 compagini ticinesi ai nastri di partenza. Il resto, è storia nota: nel 2015 fu la volta del Servette a scomparire dai radar, dopo una lotta al vertice con il Lugano per la promozione, durata sino all’ultima giornata. L’anno dopo toccò al Bienne, e, la scorsa stagione, a rinunciare fu il Le Mont.

Come si ricorderà, la Challenge League svizzera fu coinvolta (assieme ad altri tornei in Europa), anni fa (2008/2009), nello scandalo internazionale del calcio scommesse. La modifica della formula avrebbe dovuto ravvivare l’interesse per questo torneo; ma i risultati, a tutt’oggi, sono desolanti. Poco più di 167.000 gli spettatori complessivi in 90 incontri, con la punta massima di 6.235 presenti nel derby romando Servette-Xamax: numeri che tengono lontani sponsor e investitori.

La conseguenza sono stipendi bassi per la maggior parte dei giocatori (si parla di circa 5.000 Frs mensili in media), con il conseguente rischio, per i protagonisti, di essere vittime dei falchi delle scommesse clandestine. Per combattere il fenomeno, la Swiss Football League ha sviluppato un valido programma di prevenzione, e la lealtà sportiva dei protagonisti (che firmano, all’atto del contratto con il proprio club, un impegno in tal senso) è a tutta prova.

Tuttavia, non è un mistero che questa situazione, se da una parte premia in anticipo club storici come (per esempio) il Winterthur, garantendogli la permanenza nella categoria, dall’altra toglie interesse sportivo a un torneo già di per se stesso povero di contenuti tecnici, gravato com’è dalla concorrenza della Super League, dell’hockey su ghiaccio e, soprattutto, dei campionati stranieri (Chiasso e San Siro sono distanti mezz’ora di automobile, per dire), soprattutto in televisione.

Stupisce, tra l’altro, come fatto presente da Omar Gargantini della RSI, la miopia dei dirigenti delle 20 squadre appartenenti alla SFL, incapaci, di recente, di inventare soluzioni in grado di ravvivare il torneo: una modifica minimale come lo spareggio tra la penultima di Super League e la seconda di Challenge League è stato, infatti, bocciata dall’Assemblea generale, che pure aveva davanti a sé i risultati non confortanti di uno studio commissionato dalla SFL stessa.

La realtà, condividendo in pieno il pensiero di Gargantini, è che la Challenge League, così, non può andare avanti. Non può essere un posticipo televisivo serale (al lunedì, in Pay TV) a reggere l’intero movimento. Gli impianti non invogliano certo ad assistere agli incontri (con l’eccezione di Sciaffusa, Vaduz, Neuchâtel e Ginevra); tuttavia, senza prospettive economiche serie, nessuno ha voglia di fare investimenti che, in alcuni casi (Bienne, per dire), hanno affondato i club, anziché farli crescere.

Il calcio svizzero, insomma, è a un bivio: se si vuole mantenere la Challenge League come bacino di crescita per giovani emergenti (di esempi ce ne sono tanti), bisogna innovare. La formula a 10 squadre potrebbe anche rimanere (inutile, a nostro parere, allargare a compagini comunque marginali: lo stadio del neopromosso Rapperswil, nonostante gli oltre 1.600 spettatori a partita, tre volte più di quelli del Chiasso, è lì a ricordarcelo), ma va creato qualcosa di alternativo a un girone di ritorno uguale all’andata. La soluzione potrebbero essere i Play off e i Play out, studiando una formula che consenta alle squadre di giocare più incontri possibile.

Insomma, inventarsi soluzioni che consentano di avere delle partite dove ci sia in palio qualcosa. Nicola Bignotti, dirigente del Chiasso, intervistato dalla RSI, ha provato a dire che, in fondo, c’è differenza tra arrivare terzi e ottavi. Però, a fine intervento, è sbottato anche lui a dire che se, ogni stagione, una squadra non riesce ad arrivare a fine campionato, non siamo più di fronte a una competizione sportiva. Ma il problema, però, a nostro sommesso avviso, non è la burocrazia della SFL (come denunciato dal vulcanico ex dirigente del Pavia), ma la non appetibilità del prodotto. Come di dice oltreconfine: Affaire à suivre”.