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ESCLUSIVA – I nuovi talenti: Andrea Zaccagno

L’appuntamento con i giovani calciatori di Serie C che più, a nostro avviso, stanno mettendosi in mostra torna a occuparsi del Girone A. Dopo le interviste realizzate a Matteo Cotali dell’Olbia e Giuseppe Ponsat del Monza, ci trasferiamo in Toscana, precisamente a Pistoia, per parlare con il “portierone” degli Arancioni Andrea Zaccagno. Un ragazzo classe 1997 che ha già assaporato la Serie B totalizzando due presenze in campionato e una in Coppa Italia con la maglia della Pro Vercelli e che, in questa stagione, ha trovato l’ambiente adatto per mettersi in luce e accrescere la propria esperienza. Andrea, che è un ragazzo genuino, spontaneo e sicuro di sé, senza per questo apparire ed essere arrogante e presuntuoso, non è nemmeno l’ultimo arrivato, anzi è stato protagonista indiscusso nei più importanti tornei giovanili internazionali per club e con la maglia della Nazionale. Chissà che un giorno, non ci sia proprio lui a difendere i pali della nostra cara Italia.

Ciao Andrea, vorremmo che per un attimo tornassi bambino per raccontarci le emozioni e le sensazioni dei primi calci a un pallone.

Ho iniziato la mia avventura calcistica a Casalserugo, un paesino a sei km da Padova. Inizialmente, giocavo a tennis ma volevo cominciare a giocare a calcio a tutti i costi perché tutti i miei amici lo facevano. Però, c’era il problema che avessi cinque anni e bisognava averne sei, quindi avrei dovuto aspettare. Fortunatamente, riuscii a entrare lo stesso per vie traverse grazie alle amicizie di mio padre. All’inizio provavo un forte imbarazzo e anche un po’ di paura perché non conoscevo quasi nessuno della squadra, anche se poi sarebbero diventati tutti grandi amici. In ogni caso, sapevo di avere una gran voglia di giocare a calcio e di imparare.

Come hai capito che il tuo mestiere era fare il portiere, uno dei ruoli più complicati del calcio? 

In realtà, è stato un caso. Giocavo da difensore centrale e l’ho fatto per un mese più o meno, ma ero troppo falloso, entravo sempre fuori tempo e in scivolata, per cui mi dissero che bisognava trovare una soluzione. In un torneo, allora, quello di Maserà, visto che eravamo senza portiere, provarono me tra i pali anche perché ero quello che giocava peggio. Da allora, non mi sono più spostato. Ricordo che in quel torneo non c’erano i calci di rigore ma gli shootout: vincemmo e parai praticamente tutto. Mi fecero un sacco di complimenti e, quindi, non mi sono più schiodato dalla porta.

Nella letteratura calcistica ha avuto sempre un certo fascino il concetto di “solitudine” riferito agli estremi difensori, ma già da almeno un paio di decenni le cose sono cambiate: l’estremo difensore deve possedere e perfezionare attitudine al comando per dirigere e organizzare razionalmente il reparto difensivo e deve assumere in tal senso un peso specifico rilevante nella manovra collettiva finalizzata al possesso palla e agli sviluppi connessi. Come vivi il ruolo: quanto c’è di solitudine in te e quanto del portiere moderno? 

Vivo il ruolo in maniera molto attiva, mi piace partecipare alla manovra e alla sua costruzione sia quando c’è da uscire dall’area di rigore sia quando c’è da aiutare un compagno in difficoltà. Non nego, però, che ci sono dei momenti in cui, magari quando stiamo dominando la gara, è necessario stare da solo ed è difficile. Sembra una banalità, ma bisogna essere bravi a restare concentrati, pensare bene a ciò che si sta facendo per farsi trovare pronti perché indubbiamente arriverà un’azione degli avversari prima o poi. Secondo me, c’è anche un altro modo di intendere la solitudine: quello di essere il principale responsabile in caso di errore. Quando un portiere sbaglia, non c’è mai nessuno che venga a prendersi la colpa: praticamente, il portiere contro tutti, compresi i propri compagni. In ogni caso, bisogna vivere questi momenti sempre in maniera serena ed è necessario sapersi prendere le proprie responsabilità e, allo stesso tempo, con personalità, cercare di fare capire quando l’errore è degli altri. 

Dopo la fase iniziale, essendo patavino, approdi nelle Giovanili del Padova. Mi racconti quell’epoca?

Andai al Padova a nove anni e, all’inizio, non nascondo che non volevo andare perché a Casalserugo ero ben voluto e c’erano tutti i miei amici. A quell’età si pensa e si da più importanza all’amicizia che al calcio o alla carriera. Una rilevanza fondamentale in quel momento la rivestì mio padre che mi fece fare la scelta giusta e mi convinse ad andare al Padova o, quantomeno, a provare come sarebbe stato cimentarsi in un altro tipo di avventura. Con la maglia biancoscudata stetti tanti anni fino alla prima stagione di Primavera e con i ragazzi della classe ’95 e ’96, pur essendo io un ’97. Un periodo fantastico durante il quale ho ricevuto tante gratificazioni come il raggiungimento dei playoff tra gli Allievi Nazionali e la vittoria di vari campionati. Tra gli allenatori, ricordo soprattutto Cosimo Chiefa: è stata una figura molto importante per quanto riguarda l’aspetto tecnico; facevamo sedute interminabili di controllo palla e passaggi e mi ha aiutato molto a essere ciò che sono oggi. Dal punto di vista umano, ricordo con affetto Massimo Lucchini: mi ha fatto crescere tantissimo dal punto di vista caratteriale e mi ha aiutato nei momenti di difficoltà. Per quanto concerne, nello specifico, gli allenatori dei portieri sicuramente Adriano Zancopè. Poi, però, il Padova fallì e dovetti andare via.

Come avviene il passaggio al Torino? Chi ti porta lì e che importanza ha avuto nella tua crescita far parte di un vivaio da Serie A?

Dopo il fallimento del Padova, mi ritrovai a dovere scegliere se andare in Serie D o cercare un’altra Primavera nella quale continuare a crescere. Era interessata a me la Roma, oltre che Genoa e Torino. Quando ricevetti la chiamata dei Granata, mi trovavo in vacanza al mare: il direttore sportivo Massimo Bava mi disse che mi volevano a tutti i costi. Ragionando con il mio procuratore e con mio padre scegliemmo proprio il Torino sia per la grandezza della società e del club sia perché c’era mister Longo. Partii subito per Torino senza nemmeno il bagaglio. Far parte del Torino ha rivestito un’importanza fondamentale: mister Longo ha un’idea di calcio fantastica riuscendo ad allenare per tre anni una Primavera come fosse squadra di professionisti in termini di mentalità, attenzione nei dettagli, cattiveria, gestione della settimana di lavoro, allenamenti e intensità. Inoltre, il mister mi faceva sentire importante, per cui questo aiuta molto ad avere sempre gli stimoli giusti.

Col Torino partecipi al Torneo di Viareggio, giochi la Youth League, vinci anche un campionato Primavera in finale contro la Lazio e disputi la Supercoppa. Mi riassumi tutte le sensazioni? Sembri quasi un predestinato

Di predestinato ce n’è uno solo e si chiama Donnarumma. Ho avuto la fortuna di vincere già al primo anno il campionato ed è stata una iniezione di fiducia importante. In generale, giocare questo tipo di competizioni internazionali offre una mole di esperienza che, ovviamente, il campionato Primavera non può dare. All’inizio, c’è paura ma è una paura sana perché ti cimenti con i settori giovanili più forti e con competizioni che non conosci: la finale del campionato Primavera è il massimo a livello nazionale, di conseguenza la Supercoppa è importante per confermare il proprio predominio, la Youth League più di tutte porta un valore esperienziale assoluto. In generale, può essere un’arma a doppio taglio perché giocare tre partite alla settimana può diventare controproducente però, senza dubbio, andare a giocare in ambito internazionale da una marcia in più.

Dell’epoca al Torino, mi dici qual è stata la tua partita migliore e quale la tua parata più bella?

Una partita sola, no; sicuramente, tutte le finali. La finale disputata contro la Lazio penso di avere giocato davvero bene. La parata, sempre in finale contro la Lazio, quella sul colpo di testa Tounkara: se ci ripenso, non capisco ancora come ho fatto. Nel mio cuore resterà impressa anche la semifinale contro la Fiorentina vinta 3-2.

Pur essendo molto giovane, puoi vantare anche una ricca esperienza a livello internazionale con la maglia della Nazionale dalla Under 15 alla Under 20, passando da allenatori del calibro di Rocca, Zoratto, Vanoli ed Evani. Cosa ti ha trasmesso ognuno di loro?

Nelle Under 15 e 16 non ho collezionato molte presenze, quindi ho giocato molto di più con Zoratto, Vanoli ed Evani, e ora con Guidi. Ognuno di loro, ovviamente, mi ha trasmesso qualcosa: con Rocca, essendo stato il primo allenatore in Nazionale, è stato un periodo di svezzamento per capire cosa significa stare in Nazionale, quali sono gli impegni. Poi, passando per tutti gli altri, comprendi che differenza intercorre tra calcio nazionale e internazionale: la differenza di ritmi e velocità, la concentrazione e attenzione, come non si possa sbagliare nemmeno un passaggio. In particolare, Vanoli ci ha aiutato molto a crescere nella fase difensiva, mentre Guidi in quella offensiva. 

Proprio nell’anno in cui l’Italia non centra la qualificazione ai Mondiali, cosa significa rappresentare la Nazionale seppure a livello giovanile?

Sinceramente, sento il dovere e l’arduo compito di risanare questa ferita ancora aperta, è stata una grande delusione per tutti non qualificarci ai Mondiali. Abbiamo giocato contro l’Olanda proprio il giorno dopo l’eliminazione e su di noi c’era parecchia pressione, ma anche una voglia di rivalsa che si percepiva chiaramente all’interno dello spogliatoio. Il nostro dovere è quello di farci trovare pronti, di risanare e di dare una mano all’intero movimento.

Un capitolo a parte, certamente, merita il Mondiale Under 20. Cosa mi racconti di quella che deve essere stato fino a ora il momento più alto della tua giovane carriera? 

L’esperienza più bella che abbia mai vissuto perché ero reduce dalla stagione con la Pro Vercelli durante la quale avevo giocato pochissimo. Contro l’Ascoli, per esempio, avevo fatto anche un grave errore in un’uscita e, quindi, ero abbastanza giù di morale. Il Mondiale è caduto a pennello, avevo una grade voglia di rivalsa; mi è stata data l’opportunità di giocare e l’ho sfruttata al meglio. Siamo arrivati terzi ed è stato un traguardo storico divertendoci e prendendo fiducia in noi stessi man mano che arrivavano le vittorie.

Arriviamo all’attualità, la Pistoiese. Il tuo primo anno in Serie C. Che differenza riscontri con le tue precedenti esperienze?

Questo è il mio primo vero anno da professionista e soprattutto da protagonista: ho avuto la fortuna di avere trovato una squadra che mi ha dato fiducia e che crede in me. A livello giovanile giochi per sfondare o per cercare la fama; tra i professionisti, invece, hai molte più responsabilità sia nel conquistare l’obiettivo prefissato sia per i tifosi. Un’esperienza importante per capire di che pasta sei fatto. La Pistoiese è un gruppo forte e molto affiatato e, sono certo, le soddisfazioni arriveranno.

In cosa ti sta aiutando a migliorare la grande esperienza di un tecnico tutto “pane e pallone” come Paolo Indiani?

Il mister è un maestro, credo sia uno dei più bravi nell’interpretare le partite: possiede una capacità di lettura delle gare veramente disarmante. Ovviamente, è un tecnico che gratifica molto, ma anche, all’occorrenza, sottolinea e fa capire gli errori che si commettono. Naturalmente, ringrazio anche il preparatore dei portieri, Massimo Gazzoli: mi conosce benissimo e mi esorta a lavorare sempre a testa bassa per migliorarmi giorno dopo giorno al di là di ogni difficoltà. Allo stesso tempo cerco di diventare indipendente, nel senso che mi impegno a capire da solo dove e quando sbaglio.

Per quanto l’obiettivo dichiarato sia la salvezza; onestamente, non fate un pensierino ai playoff? Nel Girone A, il numero di sconfitte subite fino a qui (3) porterebbe persino al terzo posto, ma siete frenati dall’elevato numero di pareggi (8). Cosa manca per potere fare definitivamente il salto di qualità?

Non nascondo che molti punti li abbiamo lasciati per strada o per errori individuali e collettivi o per mancanza di cattiveria come contro la Giana Erminio o come contro il Cuneo. Non saprei spiegare cosa succede: in ogni caso, mettiamo in campo sempre un grande carattere, caparbietà e grinta e vincere alcune gare anche nei minuti finali lo dimostra. Una volta o due può essere fortuna, invece fa parte delle nostre caratteristiche.

Tra le squadre del Girone A incontrate fin qui, quale ti ha impressionato maggiormente e perché?

Ogni partita è una storia sé, sembra una frase fatta ma è la semplice verità. Magari, un giorno incontri una squadra di bassa classifica che fa un partitone o una di alta classifica in giornata no. A me è piaciuta molto la capolista Livorno, abbiamo perso 2-0 prendendo però il secondo gol solo alla fine: una gara disputata a viso aperto e a livello collettivo i Labronici hanno qualcosa in più rispetto alle altre.

E il giocatore più forte che ti sei ritrovato davanti?

Ce ne sono tanti; se devo fare un nome, faccio quello di Murilo del Livorno perché è un calciatore versatile, dotato di un’ottima tecnica e rapidissimo.

La tua parata più bella con la Pistoiese?

Quella contro la Carrarese domenica scorsa e quella contro l’Arzachena.

Quale ritieni sia il tuo punto forte? E quale il tuo punto debole?

Il mio punto forte credo sia la personalità e la tranquillità, a me piace essere un portiere che da una mano in tutti i sensi. Da migliorare c’è sempre tanto e soprattutto la gestione dei momenti, nel senso di interpretare meglio quando rinviare lungo o passarla corta.

A quali portieri del passato e del presente ti ispiri?

A me piace moltissimo Joe Hurt, anche se un portiere con caratteristiche molto diverse dalle mie. Anche De Gea ritengo sia molto forte. Del passato, invece, Peruzzi, ma anche Buffon, che abbraccia passato e presente. 

Sogno nel cassetto? Che maglia vorresti indossare un giorno?

Per tutto quello che mi ha dato, certamente quella del Toro. Spero di avere l’occasione in futuro di indossarla, purtroppo molto spesso i club cercano una tipologia di portiere con una struttura fisica possente, molto diversa dalla mia, e poco con qualità tecniche.