Della vergogna, e non solo
Il giornalismo in genere, e quello sportivo in particolare, vive e s’alimenta di iperboli, semplificazioni, immagini che possano colpire o solleticare l’immaginazione, quando non addirittura il basso istinto, del consumatore, lettore o spettatore che dirsi voglia. È un processo che, quasi sempre, punta al ribasso, nella sottostima delle capacità intellettive dell’utilizzatore finale, reputato alla stregua d’un imbecille, in grado solo di ragionar di pancia (ossia: non ragionare affatto), di sentire le ragioni del tifo (appunto: non ragioni), di reagire soltanto per partiti presi.
Eppure, quasi nessuno, nei giorni successivi alla morte di Aldo Biscardi, ha avuto il coraggio di sottolineare come il tanto vituperato giornalismo spazzatura sia nato in parte anche da lì, da quel Brogesso che iniziò a proporre un’Italia in macchietta, puritana ma spudorata, faziosa oltre ogni misura, nella connivente consapevolezza che tutte le posizioni, anche le più insostenibili, potessero aver ragione d’essere rappresentate. Questo, a ben vedere, è fenomeno imputabile non certo al solo ambito sportivo, che riflette e amplifica dinamiche più ampie: è l’andazzo che descrive gli ultimi non cinque, né dieci, né quindici anni, ma, forse e a dir poco, più di un trentennio, quello in cui, ma non vogliamo spingerci troppo oltre, l’Italia, come paese, come (quasi) nazione, come terra dalle grandi risorse, s’è sputtanata lo sputtanabile. Ma restiamo allo sport.
Del linguaggio, si vuol dire, e delle parole, che sono importanti, e non per un semplice vezzo di chi, più o meno, riesce a maneggiarle con una qualche proprietà. Sono importanti, le parole, perché testimoniano i sistemi di pensiero, le strutture analitiche e i valori, più o meno celati, di chi le pronuncia: sono forme di nudità, soprattutto quando vorrebbero nascondere qualcosa o quando vengono pronunciate alla leggera. Le recenti, disgraziate cronache pallonare nazionali ci portano a ricordare l’incredibile Optì Pobà con cui l’attuale presidente federale Carlo Tavecchio (al momento in cui scriviamo è ancora in sella, non saldissimo) pensò bene rafforzare la propria candidatura al governo del calcio, e in un momento di così grande confusione, non vogliamo certo recitare la parte delle iene che s’azzuffano sulla carcassa ancora calda. Né, tanto meno, vogliamo prendercela con Gianpiero Ventura, peraltro sostenuto su queste colonne in un pezzo di qualche tempo addietro: chi non fa, non falla, e posto che la conduzione tecnica dello spareggio con la Svezia è stato ampiamente discutibile (dopo mesi e mesi di 4-2-4, possibile tornare a 3 dietro contro un 4-4-2?), abbiamo visto abbastanza calcio per sapere che quello del mister è mestiere ingratissimo, spesso legato più alla capacità di tener buona la stampa che all’effettiva bravura. Tutti leoni, col genovese, adesso, ma pochissime voci erano state critiche al momento della sua nomina.
L’Italia non va al Mondiale: è un peccato? Senz’altro. È ingiusto? Non proprio. Era imprevedibile? Neppure.
Sia chiaro e non diciamo fesserie: gli svedesi, benché non fortissimi nella versione post Ibra (secondi dopo la Francia, hanno comunque eliminato cechi e olandesi), non sono mai stati una manica di cialtroni senza storia. E un filo di memoria azzurra non sarebbe guastata, facendoci rammentare come, tra il maggio e l’ottobre del 1983, gli scandinavi di Strömberg e Corneliusson tennero fuori da Euro 1984 l’Italia di Bearzot campione del mondo in carica: 2-0 a Solna e, come se non bastasse, 0-3 bruciante al San Paolo. Non spareggio secco, è vero, ma le due batoste furono decisive. Parziale consolazione: manco loro arrivarono in Francia. Curiosità aggiuntiva: il secondo gol del 2-0 di Solna, in quel triste 29 maggio, bagnò l’ultima presenza azzurra di Dino Zoff; in modo analogo, amara è stata la Svezia per la chiusura della lunga carriera nazionale di Buffon.
L’Italia non va al Mondiale, ma si pensi, con un minimo di obiettività, ai risultati colti da Azzurra negli ultimi undici anni, dopo quel successo berlinese che forse ha impedito il compimento d’un vero repulisti per rendere utile quel circo equestre che è stato Calciopoli. A livello iridato, solo scoppole, e di che risma: nel 2010, da campioni in carica, spediti a casa da Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia; quattro anni più tardi, Uruguay e Costa Rica affondano le illusioni carezzate dal successo con gli inglesi. In Europa, meglio: più che buona la versione Donadoni del 2008 (fuori ai rigori con la Spagna che inizia il ciclo invencible), eppure silurato (da e) per Lippi, ottima quella di Prandelli nel 2012 (seconda contro i soliti iberici), volitiva e applaudita quella di Conte, l’anno passato, fuori ai rigori contro i campioni del mondo tedeschi.
Un simile pedigree recente può giustificare l’eliminazione da una Svezia assai smaliziata e aiutata dalla sorte? Certo che sì, giacché il calcio è, anche per questo, lo sport più bello e ingrato al mondo, quello per cui si può prendere mille tiri senza subire gol, per poi metterne uno, con un solo tentativo, e portare a casa l’intera posta. Basterebbe ricordare i ghigni felici dopo Italia-Olanda, semifinale a Euro2000, una delle partite più incredibili mai viste a simile livello, per capire l’effetto che fa a stare dall’altra parte.
L’Italia non va al Mondiale, ma non è vergogna. Ed è su questa parola, reiterata, ribadita, replicata all’infinito, che ci siamo impuntati sin dalla scorsa notte, pur stimando poco o nulla Buffon (per chi scrive, più che un portiere finito da un pezzo, sarà sempre il falsificatore di diplomi iscrittosi all’università di Parma − ma poi… perché???), pur non subendo il fascino borgataro di De Rossi, pur empatizzando poco o nulla con lo stesso Ventura. Hanno fatto quel che han potuto, e hanno perso. Ma non è una vergogna e non si devono vergognare per il semplice fatto d’aver perduto.
La vergogna da riservare a chi perde è, in sé, qualcosa di profondamente pericoloso, perché testimonia una forma di odio, la squalifica per chi non ce la fa e, in nuce, il disprezzo per il più debole. La vergogna per chi perde sancisce e autorizza la dittatura di chi vince, il suo strapotere violento, la sua inaccettabile, eppure ormai accettata e sdoganata, tracotanza: è l’ammirazione per chi ce la fa, per chi comanda, importa poco se con mezzi leciti o meno, basta che ce l’abbia fatta. Difficile non collegare, per chi scrive, una simile dinamica ai mille e più mille episodi di violenza e dolore che punteggiano le nostre cronache: ché se perdere è vergognoso, allora si può persino pensare di morire, pur di non doversi dimostrare sconfitti, deboli, inadeguati.
Un proverbio toscano recita «Ha da vergognarsi chi ruba…», ed è già teoria più accettabile, benché pure in quel caso ci corra l’obbligo di considerare l’attenuante per cui se si ruba per fame non si hanno proprio tutti i torti. Di certo, usare la parola e il concetto di vergogna per una (lecita) sconfitta sportiva rischia davvero di svilire il termine, facendoci trovare quasi senza parole dinanzi a quanto avvenuto a Marzabotto domenica scorsa, con Eugenio Maria Luppi che, segnato un gol allo scadere contro la squadra di casa, è corso verso la tribuna facendo il saluto romano e ostentando, in una città Medaglia d’Oro per la Resistenza e teatro di uno dei più vergognosi eccidi nazisti, una maglietta con il simbolo della Repubblica di Salò.
Le parole sono importanti, ma, in certi casi, pure insufficienti.