Riflessioni sulla maratona a freddo, nel senso del gelo che ho trovato al ritorno in Italia. Innanzitutto, sfatiamo un luogo comune (o, forse, semplicemente una banalità che io, caprone, non conoscevo): la città di New York e, in particolare, l’isola di Manhattan non è piatta. Questa rivelazione da Galileo dei poveri trova sostegno nel significato stesso della parola “Manhattan”, che non ha origini nè angolsassoni nè latine, bensì deriva dal linguaggio Algonquin degli indiani indigeni d’America, che la ribattezzarono “l’isola delle colline”. Avrò modo di scoprirlo, sulle gambe, da solo, elencando tutti i santi e le madonne, anche ortodosse, di tutti i calendari conosciuti al giorno d’oggi.
Compagni di stanza, compagni di corsa – Il giorno della maratona comincia abbastanza presto, sveglia alle 5.30 del mattino (i tempi di preparazione e spostamento sono abbastanza lunghi). In camera siamo in quattro, di questi ben tre corrono la maratona. Il quarto viene bullizzato da una suoneria e da un’illuminazione accecante ad un orario disumano. Lui odia noi, noi odiamo lui, perché è al calduccio sotto le coperte a ronfare, comunque. Quel noi saremmo io, un ragazzo canadese che si chiama Olivier e un altro olandese che chiamerò genericamente Marco (in onore al grande Van Basten, deformazione rossonera), perché in realtà ha un nome da codice fiscale e in quattro giorni non ho proprio avuto l’intenzione di impararlo. Olivier è un ingegnere meccanico che lavora per la compagnia aeronautica di bandiera a Montreal. Bel ragazzo, 28 anni, biondo, fisico scultoreo, amante dello sport di tutti i tipi: dal trekking al ciclismo, dal calcio al basket… alla maratona. È, dei tre, l’unico vero maratoneta: l’ultima, fatta a Buenos Aires, l’ha chiusa in 3 ore e 45 minuti. Aggiungiamoci, infine, che assomiglia vagamente al Ryan Gosling da giovane, al tempo del film “The Believer”. Capirete, perciò, quanto lo odi per la sua insopportabile perfezione visto che, ovviamente, è anche dolce, gentile e affabile. Di Marco, invece, ignoro completamente vita, morte e miracoli, ma è un tipo pacato e gentile. Anche lui, però, corre con una certa regolarità. Avete già capito, anche, con chi dei due ho legato di più. Olivier parte con la prima “wave“, cioè la prima ondata: i corridori professionisti. Marco parte con la seconda. Io, tapino, parto con la quarta, quella riservata alle vecchiette e ai panzoni. Ma ci sono anche persone normali, sembra. Capirete, quindi, che per conquistare la leadership della stanza 428 dell’HI City Hostel di New York la competizione era altissima.
Brooklyn – Ora, la corsa. Superato il ponte Giovanni da Verrazzano, si entra nel quartiere di Brooklyn, il più popoloso di tutti. Si percorre tutta la 4th Avenue, la strada più lunga che abbia mai percorso nella mia vita. Sembrava l’unica strada del mondo. Un grande vialone, ai lati casette di legno, una in fila all’altra, da tipico film americano. Davanti alle porte, ai lati delle strade, un fiume di gente, incurante della pioggia e senza un ombrello, un k-way, una foglia di fico, urla e ti sostiene senza sosta con forza e vigore. Alcune donne, molte ragazze, preparano dolcetti e stuzzichini che infilano nelle loro teglie d’alluminio e le porgono ai corridori. Ho provato con alcune di loro a buttare un “you are beautiful” o “I love you” o “marrie me”, ma le uniche proposte ricevute sono arrivate da donne che i Queen (mio riferimento musicale assoluto) chiamano dolcemente “fat bottomed girls”. Ora, se è vero che la bellezza vera è soprattutto quella interiore, non datemi del superficialone, ma per me vale anche il detto “occhio non vede, cuore non duole”. Non ho accettato. Mettiamola così, avevo paura potessero ferirmi. Nel senso fisico del termine.
Il quartiere ebraico: Boro Park – Attraversare Brooklyn vuol dire fare un tuffo nel meltin-pot più totale che esista, osservando l’ampia gamma del genere umano in tutte le sue forme. Quella che, però, rimarrà di più negli occhi arriva attraversando il quartiere ebraico, dove c’è la più grande comunità del mondo, al di fuori di Israele. Lì, trovi tutte le insegne dei negozi in ebraico e, sui marciapiedi, passeggiano allegramente, il giorno dopo lo “Shabbath”, i classici rabini con il cappello nero, i boccoli e, spesso, la barba lunga. Siamo ad appena un quarto del percorso totale. Bevo in piccole quantità, ma spesso. Per fortuna i punti di ristoro sono frequenti. Cerco di non assaltarli tutti per evitare di dover andare al bagno in posti inopportuni. A tal proposito, viste le piogge dorate degli anni precedenti, una voce metallica alla partenza della gara avvisa chiaramente i partecipanti che, chiunque venga scoperto a far pipì sopra i ponti o per le strade e non nei bagni chimici da loro preparati, verrà sonoramente squalificato. Lungi da me, quindi, farmela scappare. Per incitarti a correre e non essere l’unico pirla ad abbandonare i giochi, i cartelloni in strada della gente sono da premio Pulitzer. C’è chi ti dice che corri più veloce del governo Trump, chi ti dà del pazzo se non la finisci, chi ti dice di resistere, chi ti dice che sei fantastico, solo perchè corri. Chi ti promette birra e beni di altro genere, che soddisfino i 7 vizi capitali. Tutto, pur di arrivare al traguardo. La cosa che, però, più di tutte ti dà forza è vedere l’elevato numero di disabili che affronta la corsa sotto la pioggia senza paura, così come gli anziani, che cascasse l’ultima cataratta, ma la corsa la fanno tutti gli anni.
Nonno Nicola – Nel mio percorso, che prevedeva tratti di corsa alternati a sessioni di camminata, ogni qualvolta mi fermavo per le seconde, beccavo sempre o due uomini con la maglia dell’Argentina, cui gridavo “Forza Napoli, Maradona”, “Italia, Argentina una familia” e altre minchiate del genere o un simpatico vecchietto sulla settantina, un italo-americano, Nicola. Non lo dimenticherò mai. Mi viene vicino, mi dà una pacca sulla spalla e mi incita: “E che vogliamo fare, siamo fermi? Forza, su!”. Succede ogni volta, giuro. Io provo a spiegargli che sto solo camminando per gestire le forze, ma a vederlo corricchiare mi vergogno come un lupo e incasso la paternale con affetto. Mi riprenderò la mia rivincita una volta entrati a Manhattan quando, da vero bastardo, noto Nicola davanti a me che rallenta e si ferma. Allora, tronfio come un’otre di vino, gli grido: “Nicò, e che è stiamo fermi? Che vogliamo fare?! Su, su, forza”. Solo allora mi accorgo che Nicola aveva rallentato solo per salutare la sua famiglia che era andata ad incitarlo ai lati della 1st Avenue. Se non facevo almeno una figura di merda sul percorso mi sarei sentito male fisicamente proprio.
The Queensborough Bridge: il mostro – Torniamo un pò indietro, passata Brooklyn, si arriva nel Queens, l’area geograficamente più grande, e lì arriva la bastardata. Quando sei alle 15 miglia e pensi di aver fatto già tutto, arriva lui, il mostro. Altresì detto “The Queensborough Bridge”. Lungo quasi 1km e 2oo mt, ha una pendenza da “Passo del Pordoi” e tu non sai se bestemmiare in aramaico per lo sforzo o ritenerti felice (ma, illudendoti), perchè sai che è il ponte che collega Long Island City a Manhattan e che, perciò, sei entrato nella parte finale della corsa. Quest’ultima affermazione, in parte, è vera. Hai fatto 15 miglia, te ne restano 11. Quello che non sai, se sei alla prima maratona come me, è che quegli 11 pesano come 25 e che sembreranno non finire mai. Sembrerà a te di finire a breve, nel senso di fine vita. Scavallato il ponte, comunque, l’ingresso nella 1st Avenue a Manhattan è da togliere il fiato, perchè passi dal lungo quartiere di case basse e popolari agli enormi grattacieli e la folla, sempre più numerosa, che ti spinge è vera benzina per le gambe. La 1st Avenue, però, così come la 4st nel quartiere di Brooklyn, è la seconda strada più lunga che abbia fatto in vita mia. Verso la fine di essa, è cominciata la vera crisi. Al posto dei santi elencati pedissequamente durante tutto il percorso, sui palazzi mi sono apparsi diavoli e mostri, spettri e zombies.
Il Bronx: un bel massaggino – All’arrivo nel Bronx speravo tanto che arrivasse Robert De Niro e mi invitasse a mangiare spaghetti con le polpette in qualche bettola, invece di star lì a soffrire tutto bagnato e dolorante. Invece Bob ha ben pensato di farsi gli affari suoi, così ho proseguito, arrancando. Per ridestarmi, ho approfittato di un nobile volontario magrebino che, con del gel stimolante di dubbia provenienza, si è curato di spalmarmi massaggiarmi i polpacci e le cosce. Avrei voluto non finisse mai, anche se può suonare un pò gay-friendly. Ma fate una maratona anche voi e poi ne riparliamo. Siamo alle 20 miglia, ne mancano 6.
Rientro a Manhattan: Harlem – Sfiorato appena lo Yankee Stadium, dove Pirlo ha dato l’addio al calcio per intenderci, dal Bronx ritorni sull’isola di Manhattan. E’ il primo momento in cui capisci che, forse, ce la stai facendo. Si entra ad Harlem, grande centro culturale e commerciale degli Afro-americani e ne trovi davvero di tutti i tipi: da quelli fighetti vestiti bene ai classici rapper da stereo sopra la spalla. L’unico fattore che accomuna questa gente a tutta quella che hai strusciato con gli occhi dalla partenza è la gioia e l’entusiasmo che ha nell’incitarti nei modi più bizzarri.
Il nemico insospettabile – Un nemico, insospettabile, durante la corsa lo si incontra sempre dove mai si penserebbe ci fosse: i punti di ristoro. L’elevato numero di check-point rende in quei punti la strada un lastricato di bicchieri di carta. La pioggia incessante che cade, il continuo calpestio dei bicchieri da parte dei podisti, i residui di Gatorade o altri liquidi presenti rendono perciò quell’ammasso di carta una poltiglia fangosa, viscida ed omogenea che proprio mal si concilia con la suola liscia e levigata delle scarpe da runner. A saperlo, avrei messo le mie adorate “Kaiser 5” da tredici tacchetti per il terreno pesante da bagnato, ispirate al grande capitano della Germania Ovest Franz Beckenbauer, quelle che uso per il calciotto del martedì sera (peraltro, con prestazioni quasi sempre scadenti). Più di un runner è scivolato su quella fanghiglia. Io mi sono salvato e mi sorprendo ancora del fatto.
La Fifth Avenue – Percorrere la quinta strada, scortato dal lato lungo di Central Park sulla destra e dai palazzoni eleganti dell’Upper East Side (uno dei quartieri più chic della grande mela) a sinistra, è estasi pura. Una vista magnifica, prima il Mount Sinai Hospital, poi il Museum Mile che ti sorprende con la facciata esterna e rotondeggiante del Guggenheim, la solita gente per strada, i corridori che, insieme a te, hanno il medesimo volto sofferente per i chilometri percorsi, ma speranzoso nella vicina vittoria finale. Roba da accelerazioni al cuore pericolose. Almeno, in quel tratto, puoi smetterla di maltrattere i poveri santi, fin lì accusati di tutti i tuoi mali, e puoi cominciare a sbraitare contro gli artisti. Vaffangogh, Andy Wahrol di sta cippa, Monet-tacci tua, mi sono rotto il Picasso, ci avete fatto due Boccioni così voi e la maratona. Cose così, minchiate. Piccole, ma che aiutano la mente ad andare avanti nel momento più difficile. Quando la testa vuole andare avanti, ma le gambe, indurite e stanche, ti urlano di fermarti a squarciagola.
L’ingresso a Central Park e il traguardo – Entrare a Central Park all’ora del tramonto è per cuori sdolcinati, ma se corri da quasi 5 ore è la cosiddetta oasi nel deserto. Capisci di essere vicino al traguardo, e allora ti godi ogni istante di quel polmone verde immerso in una cornice di cemento. Le cime degli alberi toccano il cielo e si sfregano contro le linee dei grattacieli in lontananza, generando una sensazione di pace e di protezione da ogni caos metropolitano che possa esistere. Quindi, l’arrivo. Transennato, ti fa sentire un atleta anche se pesi 120 chili per 1 metro e sessantacinque, la gente comincia a darti la mano, a congratularsi con te, ti esalta manco fossi Rocco Siffredi alla festa della patata gigante. Dopo essere uscito per un breve tratto da Central Park di nuovo in strada, poco prima della 67ima strada vi rientri per i 100 metri finali. Non ci credi ancora, poi una luce, un bagliore: le lancette del timer del traguardo, i riflettori sulla linea d’arrivo, i flash dei fotografi ufficiali. Attraversi la linea che separa la sofferenza dalla gioia pura illuminato come fossi la Madonna. Quarantadue chilometri e centonovantacinque metri, ventisei miglia virgola due americane. LA FELICITÀ.
Il poncho e la conclusione di questa storia Per combattere il freddo post-gara e preservare i muscoli, ti viene fornito un poncho in alluminio, isolante. Io, ovviamente, sembro Balotelli con la casacca del Manchester City, qualche anno fa. Mi barcameno per metterla, ma non so che pesci pigliare. Una signora sulla sessantina, con fare materno, interviene in mio soccorso. “Sorry, I’m a stupid man”, dico io. “Stupid? You’ve run forty-two chilometers, you’re not a stupid, you’re a hero”, dice lei. Grazie mamma. Recupero le mie cose, faccio le foto di rito, torno in albergo. Tutto è bene quel che finisce bene? No, perché una volta in stanza e in procinto di fare la doccia mi accorgo di aver perso bagnoschiuma e shampoo, chissà dove.
Poco male, li frego a quello stronzo di Olivier!