Il supermercato dello sport
Agli albori del marketing si assumeva che le ricerche di mercato di tipo sondaggistico fossero affidabili. Chiedere ai clienti cosa li colpisce di un logo o di una certa marca si è però rivelata un’approssimazione del tutto sbagliata in quanto non tiene in considerazione la soggettività dell’individuo.
Quando entriamo in un supermercato ci dividiamo in due grossi insiemi, a seconda di come ragioniamo. Se abbiamo in mente un obiettivo e compriamo seguendolo attuiamo un approccio top-down (cioè dalla mente in giù); se invece entriamo e scegliamo le marche che visivamente ci colpiscono, abbiamo un approccio bottom-up (cioè dagli occhi in su, verso il cervello).
Il primo utente compra marche prevedibili che lo rassicurano rispetto all’idea che ha in testa, il secondo marche appariscenti, anche dette “persuasive”.
Lo sport in America è il regno della persuasione. Loghi, marchi, miti, leggende, colori, stadi, spettacoli a metà tempo. L’avventore ne rimane affascinato e lo compra, senza che ne avesse bisogno prima.
Può sembrare logico esista una differenza tra gli Stati Uniti, ritenuti una potenza del marketing, e l’Europa. La realtà è diversa, l’Europa latina è incredibilmente avanzata dal punto di vista neuroscientifico, cioè nella capacità di decifrare i gusti degli utenti e proporre loro ciò che vogliono, che anche inconsciamente vogliono. Esiste un database di 400 individui catalogati a seconda dei loro gusti e del loro approccio allo shopping, e questo database è a Milano (o vi è stato creato, insomma ci siamo intesi) .
In effetti gli sforzi di attrarre i consumatori bottom-up è evidente. Milan e Juventus hanno i loro metodi per alimentare il “turismo del pallone” che, per esempio in Inghilterra, costituisce una grossa fetta degli introiti di squadre come Manchester City o Arsenal.
Nell’Italia che quindi dovrebbe sapere queste nozioni più di tutti e che solo ora comincia a prendere misure per rendere i suoi club più persuadenti, l’ondata di novità si scontra con la perseveranza dell’altra fazione in gioco.
A scoperchiare la natura dei top-down e permetterci di analizzare meglio questa situazione il VAR. Lo stiamo facendo tutti, diciamo la verità: avevamo una idea pregressa della moviola in campo e ora la stiamo applicando alla realtà, fregandocene di quanto vediamo con gli occhi e seguendo solo la nostra convinzione originale.
La nostra lista della spesa allo stadio prevede arrivarci, entrare, tifare con le sue molte declinazioni, uscire. Aspettare 5 minuti l’arbitro che sta prendendo la decisione giusta? Intollerabile. Accettare che una decisione giusta presa dopo il replay contraddica un’altra decisione a nostro dire ingiusta presa poco prima senza replay? Sacrilegio.
Ma come vedrebbe tali sgarbi un turista giapponese (o americano, per rimanere in tema)? Ci direbbe che l’arbitro ha sbagliato, i due giudici VAR lo hanno aiutato e lui poi ha preso la decisione giusta. Nel frattempo magari il turista del pallone si è alzato e ha comprato una birra. 5 euro in più in cassa a fine partita.
Chi vi scrive è il primissimo dei top-down, non temete. Il regolamento del pallone è troppo approssimativo per qualsiasi misura tecnologica, non mi piace questo VAR. Ma credo di dovermi sforzare e essere un po’ più bottom-up, in questo caso.
Analizzare quello che si vede, non passarlo attraverso le lenti della nostra percezione secolare del calcio.
Si arriverà ad avere partite di centodieci minuti? Ben venga se ci liberano dai ridicoli salottini da emittente privata – o pubblica. Pubblicità flash durante le pause del VAR? Nessun problema, andremo in bagno in quel momento.
Nella speranza che i vertici del pallone facciano ciò che fecero i pubblicitari quindici anni fa: inizino a fregarsene dei sondaggi popolari.