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La partita della lattina

Gli ottavi di finale di Coppa dei Campioni 1971-1972 mettevano di fronte i tedeschi del Borussia Mönchengladbach e gli italiani dell’Inter. Una partita che vedeva favoriti i nerazzurri, reduci dallo scudetto conquistato in rimonta l’anno precedente. I Puledri, invece, avevano sì vinto la Bundesliga, ma erano una squadra giovane, ancora poco conosciuta a livello internazionale. La partita di andata si giocava in Germania e l’Inter, convinta di poter avere vita facile, non alloggiò nemmeno a Mönchengladbach ma a Colonia. Ma si sa, nel calcio tutto può succedere e, soprattutto, spesso la superbia viene pagata a caro prezzo.

Accadde così che i giocatori nerazzurri scesero in campo sottovalutando l’avversario, che invece si caricò a mille, sospinto dal calore dei suoi tifosi. Al 7′ i tedeschi passarono in vantaggio con Josef Heynckes, l’attuale allenatore del Bayern Monaco. Dodici minuti più tardi Boninsegna pareggiò i conti, ma il Borussia si riportò immediatamente in vantaggio grazie a le Fevre. Poco prima della mezzora avvenne il fattaccio che rese celebre questa partita: una lattina di Coca-Cola lanciata dagli spalti colpì Boninsegna che stramazzò al suolo, dolorante al volto. I nerazzurri accerchiarono l’arbitro, l’olandese Dorpmans, per chiedere la sospensione della partita; i tedeschi si gettarono nella mischia imputando agli italiani di “fare la solita sceneggiata all’italiana”. Seguirono attimi concitati: Mazzola notò due tifosi connazionali che stavano bevendo una lattina, se la fece dare e la porse all’arbitro, paventandola come “corpo del reato”. Naturalmente, come affermò qualche anno più tardi lo stesso Mazzola, non si trattava della stessa lattina gettata dagli spalti, visto che quella era piena. Ma servì comunque ad aumentare l’agitazione e il nervosismo. Il direttore di gara sospese la partita per qualche minuto, poi la fece riprendere: di lì in poi il Borussia si scatenò, segnando altre cinque reti e finendo la gara con un roboante 7-1. Probabilmente l’Inter, convinta della vittoria a tavolino e rimasta in 10 per l’espulsione di Corso, giocò totale sufficienza quell’ora rimanente di gioco.

Terminato l’incontro, i nerazzurri chiesero il 3-0 a tavolino. Ma furono colpiti da una doccia gelata quando vennero a conoscenza che il regolamento UEFA non contemplava i casi di responsabilità oggettiva. E qui entrò in gioco l’avvocato Peppino Prisco, vice-presidente dell’Inter, che divenne l’assoluto protagonista della vicenda. L’avvocato insistette nei confronti dell’UEFA per ottenere quantomeno l’annullamento della partita. La difesa dei tedeschi si basava sul fatto che a lanciare la lattina fosse stato un tifoso italiano. Ma la tesi si sgretolò quando la polizia locale rese noto che l’autore del gesto era un ragazzo olandese naturalizzato tedesco, ovviamente tifoso del Mönchengladbach. Con questi argomenti a favore, Prisco convinse l’UEFA a rigiocare la partita (che venne spostata da gara di andata a gara di ritorno, nella sede neutra di Berlino). Stavolta l’Inter non snobbò l’avversario e vinse 4-2 a San Siro, riuscendo poi a resistere in Germania portando a casa 0-0 e qualificazione.

All’epoca il fatto ebbe una eco importante in Europa, soprattutto in Germania e in Italia. Sul fronte tedesco si continuò con la tesi che la lattina che aveva colpito Boninsegna era vuota e che quindi il giocatore nerazzurro era pienamente in grado di continuare a giocare. Anche l’arbitro olandese, intervistato nel 2009, dichiarò che aveva avuto la stessa impressione, pur non avendo visto in presa diretta “il fattaccio”. Bonimba, interpellato da Calcissimo.com un paio di anni fa ha dato la sua versione: “Quello che successe dopo non lo so, perché ero a terra. Ero andato a battere una rimessa laterale quando ho sentito una botta e sono svenuto. Dopo essermi ripreso volevo giocare, ma il dottore mi ha portato negli spogliatoi”.

Chissà, forse se fosse accaduto nel calcio odierno, con le mille telecamere che circondano il rettangolo di gioco, si sarebbe avuta la certezza dei fatti. Rimane una storia particolare, da raccontare, anche oggi, a quarantasei anni di distanza.