Al bar, sui social network, nei piani alti della Federcalcio Italiana. Non importa dove si dibatta, l’argomento clou è sempre lo stesso: la necessaria riduzione delle partecipanti alla Serie A. Come se le difficoltà del nostro calcio fossero unicamente riconducibili al numero delle squadre. Come se si fosse trovato l’antidoto infallibile per rilanciare definitivamente il campionato italiano. Se poi questa convinzione viene dalla mente del massimo esponente del pallone nostrano, Carlo Tavecchio, ecco che la cassa di risonanza aumenta e di parecchio. Secondo il presidente federale la riforma è addirittura inevitabile: occorre, in sostanza, restringere il numero delle squadre professionistiche e, di conseguenza anche quelle di A. “La riforma consentirebbe alle società di risparmiare” ha illustrato il numero uno della FIGC. Ma basta davvero così poco per risollevare la sorti del nostro calcio?
Intanto Tavecchio sa benissimo che non si tratta di un mero aspetto economico. Le società risparmierebbero? Può darsi, ma non è questo il nocciolo della questione. La realtà è che il campionato, per come è progredito negli ultimi anni, è un prodotto che ha perso appeal, soprattutto dal punto di vista tecnico. Un campionato che negli anni ’90 era tra i migliori – se non il migliore – del panorama europeo, si è fatto superare di slancio da Liga, Premier e Bundesliga. Molti ritengono che questo sorpasso si sia concretizzato dopo l’avvento della Serie A a 20 squadre, che ha portato progressivamente a un impoverimento tecnico e a una maggiore distanza tra i club di prima e seconda/terza fascia. Ma ci si scorda, con un pizzico di malizia, che anche le altre Top League europee sono composte da venti squadre. E anche lì ci sono profonde differenze tra i club che puntano al titolo e quelli che mirano alla salvezza. Basti vedere i risultati delle prime sei giornate e l’attuale graduatoria di Liga e Premier per farsene un’idea. Come in Italia, anche in Spagna e in Inghilterra le due ultime della classe (Alavés e Crystal Palace) hanno ancora zero punti in classifica. Tutto il mondo è paese, verrebbe da dire.
Le ragioni di una diversa appetibilità tra i campionati esteri e il nostro va ricercata altrove. Intanto nel diverso sfruttamento delle risorse: nel resto dell’Europa, già da anni, si è fatto una politica di rinnovamento, investendo molto nel calcio giovanile e nelle strutture, come impianti e centri sportivi. Investimenti che non danno risultati immediati, ma che permettono alle società più lungimiranti di “riscuotere” un credito nel futuro. E chi ha ben seminato, adesso ne sta raccogliendo i frutti. Ad aumentare la forbice ci ha pensato anche la diversa ripartizione degli utili. C’è sempre stata distanza tra piccole e top club, ma con l’avvento delle pay-tv la differenza è aumentata vertiginosamente. I diritti televisivi vengono ripartiti in maniera tutt’altro che equa e le squadre che lottano per evitare la retrocessione – diversamente da quello che accade in Premier League, ad esempio – raccolgono le briciole, rispetto a quanto conservato per le grandi.
E allora, presidente Tavecchio, per riformare il calcio non basta guardare ai numeri. Non è sufficiente ridurre il numero dei club professionistici. Magari può essere una via, ma non LA soluzione. Bisogna guardarsi dentro e fare una cosa che troppo poco viene fatta in Italia: una profonda autocritica. E poi agire di conseguenza.