Evviva l’estate, viene da dire. Lo affermiamo da pallonari atipici: disprezziamo ideologicamente il dominio assoluto, a livello d’esposizione mediatica, del calcio sulle altre discipline sportive, benché pure noi, talvolta, cadiamo nella trappola di preferire una partita non fondamentale a eventi ben più importanti come valore assoluto. Almeno ce ne rendiamo conto. Ed è per questo che, a dispetto dei tifosi da TSO, amiamo l’estate, periodo in cui si balena un’apparente, quanto limitata, liberazione dal football a riportare in primo piano tutto quel che ricade nell’infausta categoria degli altri sport, madre e sorella di quella ancor più iniqua detta sport minori.
Questo per dire del Tour 2017, ma non solo: entriamo adesso nel vivo dei Mondiali di nuoto, a Budapest, sapientemente “sfasati” dall’altro grandissimo evento dell’estate (boreale), la kermesse iridata di atletica leggera che Londra attende come una sorta d’amarcord di un’Olimpiade memorabile per qualità ed efficienza organizzativa. (Circa l’equivalente competizione di scherma, pur nel rispetto d’una pratica ricca di storia e particolarmente cara allo sport italiano, tendiamo a esser più cauti: i paesi in pedana sono un numero sensibilmente inferiore rispetto a quelli in pista e vasca).
Eh sì, il Tour: altro giro, altra corsa, altra vittoria di Chris Froome, l’albatro keniota tanto (apparentemente) in imbarazzo in sella quanto a proprio agio in vetta alla classifica generale della Grande Boucle. Un dominio, il suo, con il quarto successo in cinque anni (quinto in sei per la squadra britannica Team Sky: soltanto il nostro Nibali, bravissimo a sfruttare l’occasione propizia nel 2014, ha impedito una dittatura altrimenti assoluta) lo proietta tra gli immortali della pedivella, benché non manchino i mugugni, i dubbi, le critiche: tutto giusto, a seconda del punto di vista, anche se non proprio inedito.
In effetti, messo in sequenza e in coda ai nomi di Jaques Anquetil, Eddie Merckx, Bernard Hinault e Miguel Indurain, il ragazzo di Nairobi rischia di figurare a mo’ d’intruso, ma questo dipende senz’altro pure da dinamiche endemiche: la Storia (con la maiuscola) vince sempre sulla cronaca (con la minuscola), e per pesare i fenomeni è doveroso attendere che l’eco delle loro gesta si depositi, dando loro il tempo per assestarsi nella memoria collettiva.
Del resto, stiamo parlando di autentiche leggende, in grado di segnare le rispettive epoche anche al di là del proprio ambito disciplinare: quei due nel mezzo, forse, persino più del primo francese a far cinquina e del navarro extraterrestre, corridori coi quali il campione angloafricano condivide le doti da passista e una certa disinvoltura nelle cronometro. Campionissimi totali, invece, il Cannibale belga e il Caimano bretone, gente buona a metter in riga gli avversari (e che avversari) praticamente su tutti i percorsi, pure quelli ritenuti meno adatti (il gustoso aneddoto di Hinault alla Roubaix 1981, piuttosto noto, lo serbiamo per un’altra volta).
Messa giù in questo modo, è difficile far “sopravvivere” Froome a siffatti confronti: così poco affascinante il britannico, così bruttino da vedere in sella, con quelle gambe a mulinar rapporti leggeri, e una conduzione di gara che da anni fa storcere il naso agli appassionati più esigenti. Eppure.
Eppure vince, innanzitutto.
E vince, sino a prova contraria, da pulito, forte d’un DNA amico e di tanto, tanto lavoro, individuale e non solo. Già, la squadra: un Mikel Landa scudiero di più che di lusso, ciclista di prima grandezza piegato(si) alle logiche d’appartenenza, ma anche Nieve, l’impalpabile Henao, l’interessantissimo Kwiatkowski, il navigato Kiryenka, e potremmo continuare. La critica più gettonata è quella d’aver vinto grazie alla squadra, il che, nella fattispecie di quest’edizione, è innegabile: ma, se da un lato, è caso rarissimo arrivare a Parigi in giallo senza l’equo supporto dei compagni (ci viene in mente, forse, solo Lemond, in epoca recente, e il caso di Tom Dumoulin, ma al Giro d’Italia di due mesi fa), dall’altro, questi erano i refrain che accompagnavano, puntualissimi, le vittorie di Hindurain, dominatore dei grandi giri nei primi anni Novanta. Certo, Miguelón aveva il buongusto di non correre una e soltanto una corsa, oltre al poter vantare un’invidiabile postura in sella e carisma da leader in quantità, ma l’impressione è che Froome paghi il prevedibile (e logico) scotto per cui chi vince risulta un po’ antipatico. Anche perché in salita, nonostante i ritmi si siano alzati di circa 10km/h nel tempo, l’effetto scia (il vantaggio fisico di stare a ruota) non ci pare possa dirsi ancora decisivo.
Un campione noioso, è stato detto più volte in queste tre settimane di corsa: è vero, per la settima volta nella storia, il re di Francia non ha vinto neppure una tappa (i precedenti: Firmin Lambon, belga, 1922; Roger Walkowiak, francese, 1956; Gastone Nencini, italiano, 1960; Lucien Aimar, francese, 1966; Greg Lemond, statunitense, 1990; Óscar Pereiro, spagnolo, 2006), ed è vero che la corsa è stata giocata più sui nervi, sulle sfumature, che sull’impresa eroica, da sempre ingrediente irrinunciabile per lo sport più epico e popolare. Eppure, nonostante Froome non riesca a farci innamorar di sé, nonostante siano più che ragionevoli le osservazioni che gli vengono indirizzate, l’istinto è quello di prenderne, almeno parzialmente, le difese, alla stregua degli applausi che, a bordo strada, debbono rivolgersi a tutti gli atleti che sputano l’anima per arrivare al traguardo. Perché doping o non doping (e, per una volta, non occupiamocene), vittoria o non vittoria, il ciclismo è fatica, per tutti, campioni o gregari, talenti innati e caparbi sgobboni.
Senza abdicare alla riflessione, certo: carezzando l’idea di squadre a salari calmierati, per evitare lo strapotere di una, o di compagini ridotte nel numero di atleti (sette potrebbero andare) per aumentare il numero dei team in campo, magari minando il “controllo” neppure troppo segreto esercitato dai maggiori, nella speranza che ci siano sempre più nuovi ragazzi terribili (Fabio Aru in testa, ma un pensierino vorremmo farlo pure su Diego Ulissi) a rovinar la festa (o almeno provarci) a chi s’è già affermato.
Nell’attesa: congratulations, Chris.