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Quei talenti che l’Europa non sa più coltivare

Oleksii Sidorov / Shutterstock.com

“Il Brasile è la patria del futebol“: assioma, questo, che si spegne nella notte dei tempi. Da sempre, il calcio verdeoro suscita fascino, perché lì giocare a pallone è molto più che un hobby; è una vera e propria passione, che si sente scorrere nel sangue fin da bambini. Se hai un pizzico di tecnica in più degli altri, senti che puoi esplodere, senti che puoi farcela. E se trovi qualcuno che ti aiuta, puoi finire per giocare da professionista, e poi approdare nella squadra dei tuoi sogni. Magari, perfino finire in Europa. Il Vecchio, ricco, continente.

Da questa parte del mondo, il Brasile è visto come una terra dell’oro, in termini di talenti. L’ultimo fenomeno in ordine di tempo giunto a impreziosire il calcio europeo è stato Gabriel Jesus, prelevato dal Manchester City da un Palmeiras che, di campioncini, ne sta allevando molti altri (Tchê Tchê è uno di questi, e l’abbiamo anche intervistato in esclusiva un po’ di tempo fa). E Gabigol? Fidatevi: ha solo bisogno di spazio. E fiducia. Ha vinto un oro olimpico da protagonista, l’unico nella storia del calcio brasiliano, e quella medaglia non può essere una pura coincidenza.

In questa sessione di calciomercato, come prevedibile, di nomi accostati alle nostre squadre un’infinità. Da Joao Pedro della Chapecoense (ma di proprietà del Palmeiras) che interessa alla Sampdoria, a Lucas Lima che si è promesso al Barcellona di Neymar con l’Inter alla finestra; da Luan che piace allo Zenit di Mancini e alla Lazio (così come Richarlison, conteso anche dalla Roma) a Thiago Maia vicino al Milan; da Alisson del Cruzeiro che piace al Genoa, a Mascarenhas, terzino talentuoso del Fluminense entrato in ottica Fiorentina. Questi ma non solo, si potrebbe continuare a oltranza (Balbuena-Lazio, Vitinho-Barcellona, Yago Pikachu-Spal, Emerson Santos-Roma) ma preferiamo limitare l’elenco e approfondire il discorso sul perché è importante dare un occhio a quella terra meravigliosa che è il Brasile.

“Certo – mi direte voi – è facile per te parlarne bene: sei brasiliano”. Vero, ma fidatevi: è un discorso, questo, che va oltre le mie origini e le mie passioni. È un discorso oggettivo: investire nel calcio brasiliano, al giorno d’oggi, significa ottenere benefici per entrambe le parti in causa. Chi vende (le squadre brasiliane) ricevono milioni, chi compra (le squadre europee) si assicurano talenti. Perché questo sono: talenti. Ragazzi che il calcio lo hanno sempre giocato: prima in strada, poi nei palazzetti di Futsal (in Brasile si parte, praticamente, sempre dal calcio a 5), e successivamente nelle squadre a 11. Calciatori che si stanno formando, e se a volte l’investimento si rivela sbagliato è solo perché viviamo in un mondo che oggi non aspetta. Neanche nel calcio, dove girano milioni e milioni. Oggi non si consente più ai calciatori giovani di crescere con calma. Si vuole tutto e subito. Si pretende la giocata, si vuole l’ovazione del pubblico. Non è più consentito attendere: se scendi in campo, devi incidere, subito. Altrimenti vai in panchina, e chissà se finirai mai di scaldarla.

La situazione è piuttosto evidente: il nostro calcio rappresenta il classico caso del cane che si morde la coda. Si investono milioni, e si pretende che fruttino immediatamente. Ma non è che sotterrando una seme di rosa si può pensare che, innaffiandolo una notte intera, al mattino sbocci. Sarebbe da stolti, ma purtroppo questo mondo ci sta abituando a pensare così. E se mi chiedete perché proprio in Brasile, secondo me, conviene investire, vi rispondo che per quanto se ne dica, quel calcio lì è in crescita. Non economica, ma in termini di organizzazione. Nonostante i disagi dovuti ai problemi finanziari, infatti, alcune società stanno diventando eccellenti sotto l’aspetto organizzativo (vedi il centro sportivo del Palmeiras, meraviglioso; vedi il nuovo stadio del Botafogo, un gioiellino). Inoltre, per quanto si possa puntare il dito contro un movimento in difficoltà, è storicamente risaputo che in Brasile il calcio è qualcosa che si fonde nel DNA delle persone fin da bambini, sin dalla nascita. È un gene. Un qualcosa di innato, che va fatto sviluppare nel tempo. Con calma.

Purtroppo, però, qui in Europa ci siamo dimenticati di come si faccia.