Niente di meglio, per un appassionato di pallacanestro, che il mese di giugno: finali da una parte all’altra dell’oceano e il massimo livello possibile di agonismo.
Non so se si possa dire lo stesso circa il livello del gioco espresso in campo, stanti la fatica di una stagione intera (spesso su più fronti: vero Milano?) e il nervosismo che dell’entusiasmo e della ‘fame’ delle piazze è il rovescio della medaglia, ma anche un’azione meno fluida o qualche errore di troppo valgono bene una messa. Il basket il suo meglio lo dà ai playoff e nelle serie, in ogni categoria: dalla Prima Divisione alla Serie A alla NBA, la vera bellezza è spiegare a chi solitamente non segue che no, non ci sono un’andata e un ritorno, che è una sfida ‘a chi ne vince tot…” e perché la ‘bella’ si giochi in un campo e non in un altro.
L’appassionato di basket, specialmente in un paese calciofilo (e non è detto sia un male esserlo) come il nostro, è un po’ anche un divulgatore. Deve esserlo, perché in fondo ci tiene a trasmettere le occhiaie della mattina post finale NBA seguita in diretta-fiume, o a raccontare che in Italia lo scudetto se lo giocano due ‘piccole’ come Venezia e Trento, dalla storia così uguale e così diversa.
Il cestista, praticante o no, passa dalle finali di Promozione nel paese accanto alle immagini di RAI e SkySport sull’eliminazione dell’Olimpia Milano, quella precoce di Sassari, o la rincorsa delle bolognesi nei playoff della serie cadetta. Lo fa con una naturalezza e un’abitudine che stupiscono chi è abituato ad altre formule e sistemi, quasi lo stregano: la voglia di vedere se lo scudetto tornerà a Venezia dopo più di 74 anni (!) o se sarà l’Aquila Trento a vincere a 22 anni dalla sua stessa nascita ti viene per forza.
Albo d’oro alla mano, l’ultimo titolo di campione nazionale messo in bacheca dalla Reyer Venezia risale al 1942-1943. Non erano anni facili per l’Italia e la ‘diversità’ di quel periodo la descrive, meglio di ogni giro di parole, il nome della seconda classificata quell’anno: la Mussolini Roma. C’erano anche, in un campionato a girone unico e senza playoff, i G.U.F. Napoli, Livorno, Pavia e Roma: Gruppi Universitari Fascisti, diciamo l’attuale C.U.S.. E si poteva pareggiare: basta a dare l’idea di quanto lunga sia l’attesa di Venezia per lo scudetto?
Dall’altra parte chi è ormai un habitué dei playoff ad alto livello, ma nello sport ‘vicino di casa’. Quello con cui, nei più piccoli centri italiani, la palla a spicchi deve dividere risorse, campi e palestre: la pallavolo, eccellenza italiana a livello e maschile e femminile (3 mondiali gli uomini, 1 le donne), che al capoluogo trentino ha dato sinora 4 scudetti, 3 coppe campioni/Champions League e 4 mondiali per club. Nella pallacanestro, risale al 1995 la nascita dell’Aquila per fusione di due società minori e da lì è arrivata la scalata irresistibile: impossibile, per lo spettatore neutrale, non spellarsi le mani di applausi in questi ultimi anni. Trento ha giocato (e convinto) in Europa e ora, eliminando il gigante Milano, può confrontarsi con una Reyer regina del basket veneto dopo i fasti di Treviso (altra città sportiva a 360 gradi).
I più scettici, i puristi, diranno che rispetto a 15-20 anni fa il livello è sceso vertiginosamente e un po’ le vertigini son venute davvero, in questi anni. Lo score europeo di chi domina(va) la Serie A, a differenza di quello della Juventus collezionista di finali, imbarazza; siamo andati bene, come movimento, nelle coppe migliori, ma senza le polisportive alla Barcellona/Fenerbahce difficilmente torneremo grandi. Finiti gli sponsor a pioggia e quelli dei grandi patron, facciamo spesso le nozze coi fichi secchi.
Ma non è detto sia un male: De Raffaele-Buscaglia è sfida interessantissima e una rinfrescata all’albo d’oro – dopo quella con Sassari nel 2015 – non può che far bene alla diffusione del gioco. A far appassionare tanti giovani veneti e trentini alla pallacanestro, lo sport che non finisce mai: tra NBA, Italia ed estero i temi di giugno sono infiniti.
Lo avete visto e lo vedete anche sulle nostre pagine.