Editoriali

Para la historia

Ieri sera, a Cardiff, s’è fatta la storia. Oddio, in una finale di Champions League un po’ di storia si fa sempre, d’accordo, ma ieri s’è fatto qualcosa di ancor più storico del solito.

Prima di tutto perché il Real Madrid ha portato a casa la terza coppa nelle ultime quattro edizioni (per trovare qualcosa di comparabile occorre tornare indietro di almeno tre lustri, durante il periodo dei Galácticos madridisti che consentì ai Blancos stessi di mettere in cassaforte sempre tre titoli ma in cinque edizioni) e, soprattutto, ha spezzato la maledizione secondo cui nessuna squadra sarebbe mai riuscita a vincere due volte di fila la coppa da che questa si svolge nel formato contemporaneo da Champions League, appunto.

E ci avevano provato in tante squadre diverse, tendenzialmente tutte fortissime. Tra queste, guardando all’ultimo decennio, spicca senz’altro il Barcellona che, si può dire, ha vissuto dal 2004 circa a oggi il periodo di massimo splendore del club. E nonostante i blaugrana abbiano portato a casa quattro coppe in dieci edizioni – cosa che, tolto il Real Madrid degli anni 50, è riuscita solo al leggendario Liverpool degli anni 70 e 80 – stabilendo di fatto un nuovo standard del concetto di “credibilità europea”, le Merengues hanno messo il turbo e hanno fatto qualcosa di ancor più sconvolgente.

Fermiamoci un attimo a pensarci.

Nel momento culmine della storia dei tuoi avversari storici, acerrimi rivali, oppositori politici e nemesi per antonomasia, tu Real Madrid metti assieme tre Coppe dei Campioni in quattro anni. Tra l’altro battendo due volte in finale l’altra nemesi storica, per l’occasione risorta anch’ella a un livello che mancava da una vita. Due deduzioni facili discendono da tutto ciò: siamo di fronte a un periodo che definire magico per il calcio spagnolo è un delicatissimo eufemismo; di quanta cultura vincente deve essere impregnato un club per costruire una squadra di primeggiare per quasi dieci anni in Europa nonostante abbia entrambi i propri avversari d’elezione ai massimi delle rispettive storie calcistiche?

È affascinante osservare come il meccanismo in stile yin e yang di cui sono protagoniste le due principali superpotenze iberiche da un decennio abbondante ora privilegi l’uno, ora l’altro ma sempre in un contesto in cui la forza dell’uno dà nuova linfa anche all’altro: a prescindere da quale delle due prevalga, il circolo virtuoso/vizioso/vitale (giudichi il lettore) consente di crescere anche a quella che viene sconfitta, come se le due realtà dovessero comunque mantenere uno standard di stabilità. Peccato che poi i Blancos tirino fuori il loro asso nella manica – che il Barcellona oggettivamente non possiede – dell’enorme tradizione europea e, di riffa o di raffa, finiscano per prendersi la scena continentale. Parafrasando Gary Lineker, la Champions League è quel trofeo a cui partecipano ogni anno le migliori compagini d’Europa e che poi domina il Real Madrid.

Domina perché, visto che si tende a dimenticarlo, il Real arriva come minimo in semifinale ininterrottamente dal 2010/2011. Una regolarità mostruosa che nessun’altra compagine europea può vantare nello stesso periodo di tempo. Il Bayern tre volte finalista negli ultimi sette anni non sempre è entrato tra le prime quattro d’Europa e lo stesso dicasi per il leggendario Barça del ciclo di Guardiola. Lo United negli ultimi anni fatica anche solo a partecipare alla competizione mentre la Juventus e l’Atlético hanno riscoperto le proprie vocazioni europee solo relativamente di recente (e, negli ultimi quattro anni, i Colchoneros sono stati fermati prima delle semifinali una volta sola. Indovinate da chi).

Comunque la si guardi, la squadra dei Blancos è la più regolare del continente da quasi una vita, parlandone in termini di cicli calcistici. Sicuramente c’entra la solidità economica del club, senza dubbio ci hanno messo lo zampino alcuni dei migliori allenatori su piazza (due dei migliori cinque al mondo sono stati lì, negli ultimi anni), è ovvio che il nucleo di giocatori attuale sia composto da supercampioni così come Zidane – per quanto ancora va capito se è davvero un grande allenatore – sia l’uomo giusto per gestirli. Però c’è sicuramente anche un discorso di fattori altri, di mistica della società, di tradizione, di feeling, di intangibles quasi inspiegabili. E ieri sera la Casa Blanca ha deciso di evidenziare ancora una volta l’esistenza e il peso della propria aura, probabilmente per assicurarsi che anche questi, citando Max Pezzali, verranno ricordati come «anni d’oro del grande Real».

Published by
Giorgio Crico