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Uno dei lati più affascinanti della fine della stagione calcistica è che, comprensibilmente, nello spazio di un paio di settimane si giocano una valanga di finali. Due internazionali e poi una miriade di partite nazionali. Ebbene, ieri sono state assegnate le coppe di Inghilterra, Francia, Germania e Spagna. Il dato curioso, però, è che in due casi su quattro si è assistito a una vittoria che corrisponde a un canto del cigno, in uno chi ha vinto proseguirà nonostante il peso di un’opinione pubblica a sfavore sempre crescente e nel quarto il futuro del vincitore è in totale bilico.

Stiamo parlando, rispettivamente, di Barcellona, Borussia Dortmund, Arsenal e Paris Saint-Germain. Luis Enrique e Tuchel, com’era noto ormai da ben più di qualche settimana, erano all’ultimo giro di giostra sulle rispettive panchine e dalla prossima stagione saranno altrove. Dove, di preciso, non è ancora dato sapere anche perché entrambi provengono da realtà europee di primissimo piano e rimediare un posto di lavoro all’altezza è, nel caso di Lucho, praticamente impossibile o, nel caso del tedesco, molto complesso. Ironicamente, si parla proprio dell’ormai ex tecnico giallonero come possibile guida del Barça ma è un’ipotesi complessa, per quanto affascinante, perché l’allenatore teutonico non è un uomo del club.

Discorsi sul futuro a parte, entrambi lasciano nel migliore dei modi e cioè vincendo: Tuchel finalmente per la prima volta, Luis Enrique per la nona. La coppa di Germania del primo gli consentirà di essere ricordato anche come vincente dal tifo di Dortmund invece che venire disperso nel mare magnum del dopo Klopp in quanto “uomo che ha posto la prima mattonella della rinascita”; la Copa del Rey del secondo lo autorizza invece ad affermare che non ha avuto una singola annata senza vincere qualcosa in blaugrana, impresa durissima nonostante lo squadrone a disposizione, e di chiudere la sua esperienza sulla panchina culé con appena due titoli in meno rispetto a una leggenda come Cruijff (ma ottenuti in tre anni invece che in otto). L’impatto di Lucho sull’evoluzione tecnico/tattica del club catalano sarà probabilmente risibile rispetto a quello del vate olandese o di Guardiola ma l’asturiano è stato preso per vincere di nuovo e il più possibile e, piaccia o meno, lui l’ha fatto. Comunque vada, i successori di entrambi i tecnici uscenti raccoglieranno un’eredità decisamente più pesante proprio in virtù dei successi di ieri.

Chi invece non avrà un successore nemmeno quest’anno è quella vecchia aquila (in tutti i sensi) di Arsène Wenger, uomo quanto mai bizzarro che in campionato fatica enormemente a trovare il bandolo della matassa, in Champions League non solo esce (e fin qui sarebbe normale) ma lo fa anche rimediando spesso delle figuracce ma in FA Cup domina. E quando diciamo domina, intendiamo domina. Col pugno di ferro, anche. Sette trionfi in venti edizioni, una percentuale di successo del 35% in assoluto e tre titoli nelle ultime quattro campagne. Spettacolare, va ammesso. Anche perché – urge ricordarlo sempre – in Inghilterra la FA Cup vale quanto la Premiership, non è una coppetta accessoria come la nostra coppa nazionale. Quest’anno poi ha anche superato in finale il Chelsea scudettato di Conte: è un’impresa che dimostra come, nonostante lo si dia ogni anno per morto, il vecchio Arsène abbia ancora qualcosa da dire. Il problema è che è difficilissimo valutare cosa sia meglio per il club: è chiaro che il francese non ne ha più se si considera il lavoro sull’intera stagione ma sulla singola partita sa ancora farsi valere. Ed è una qualità che, innegabilmente, ha portato trofei negli ultimi anni.

Infine veniamo al caso più spinoso di tutti. Unai Emery al PSG era un esperimento interessante. Un allenatore abituato a fare le nozze coi fichi secchi chiamato stavolta a gestire una squadra di mostri moralmente obbligata a fare il salto di qualità a livello europeo. Un uomo che fa dell’organizzazione in fase di non possesso il suo vanto e la sua arma in ambito continentale che, dopo aver dominato il Barcellona in casa, va in Catalogna a prendere sei gol (i secondi tre nel giro di un batter d’occhio) e trasformare un’impresa in una disfatta senza precedenti. Ora la panchina traballa perché l’iberico ha perso anche la Ligue 1 (dopo anni di dominio assoluto) in favore di un Monaco giovane, rapido e sexy ma, per organico, ancora inferiore alla squadra della capitale. Ora tutto è in mano alla proprietà qatariota: l’ex Siviglia verrà confermato in virtù delle due coppe nazionali comunque vinte? Se sì, sarà una scelta convinta o “inerziale” in stile Moratti dei bei tempi?

Nel giro di un paio di mesi tutte le domande che adesso ci poniamo su queste quattro realtà d’élite del calcio europeo avranno risposta, è solo questione di pazientare. Quel che è certo è che quest’estate assisteremo a un rimescolamento di carte mica da ridere, sul continente, e la carta geografica delle potenze in ballo potrebbe cambiare sensibilmente rispetto alla stagione appena trascorsa. Tra l’altro, nel caso si verifichino spaccature adesso impreviste e/o imprevedibili tra allenatori e società (Guardiola col City, piuttosto che Conte col Chelsea o Allegri con la Juventus), il cambiamento potrebbe assumere proporzioni rare, nel contesto dei top club europei.

Più si va avanti e più i “nuovi corsi” si consumano in fretta, dando al nostro calcio un ritmo che a volte sembra complicatissimo anche solo da seguire se, appena appena, si prova a uscire dai propri confini. Anche perché la globalizzazione del pallone, ormai consolidatissima dopo quasi venticinque anni di sentenza Bosman, sa dare il via a degli effetti a cascata pazzeschi le cui conseguenze possono investire ben tre o quattro leghe diverse. Non è meglio di una volta, non è peggio: è solo molto, molto più veloce. E bisogna calarcisi totalmente, altrimenti si perde il passo.