Lo giuriamo, anzi no, ma fidatevi lo stesso: l’idea del presente editoriale ci ronzava in testa da un po’, tanto eravamo sicuri che il campionato non avrebbe potuto avere un esito differente da quello concretizzatosi due giorni or sono, al di là del pallottoliere, dell’aritmetica e delle fantasiose ipotesi che qualcuno ha carezzate nelle ultime settimane. Aveva pienamente ragione, da questo punto di vista, Luciano Spalletti, qualche giorno fa, nel rimarcare come la Juventus di Allegri abbia, mai come quest’anno, amministrato il vantaggio con intelligenza e che se i punti dalle inseguitrici Roma e Napoli si erano ridotti sensibilmente, questo era il risultato d’un sapiente dosaggio di forze dovuto al triplice impegno. Se i bianconeri avessero dovuto concentrarsi sul solo campionato, saremmo infatti a commentare l’ennesimo torneo vinto alla stregua d’uno schiacciasassi, con ancor meno storia rispetto a quello consumatosi sinora.
E, adesso, con la finalissima di Cardiff nel mirino, con la tangibile ipotesi d’un triplete dal sapore storico (ancora da raggiungere, nonostante qualcuno si sia già lecitamente prodotto in previsioni trionfali), con una dimensione europea finalmente riacquisita, consolidata, non frutto d’un exploit temporaneo come poteva esser letta la finale Champions di due stagioni addietro, adesso che la Juventus è tornata a essere sia squadra sia società di prima grandezza, sarebbe davvero l’ora di piantarla una volta per tutte con le rivendicazioni e i rosicamenti post-Calciopoli, a partire da quel conteggio di scudetti che ha ormai annoiato, se non letteralmente infastidito, tutti gli autentici sportivi al di là di colori e appartenenze.
Parliamo, ovviamente, della polemica riguardante il computo degli allori in campionato con i contestatori dell’azione dei giudici a rivendicare i 35 successi conquistati sul campo, e i legalisti a rimarcare come i campionati 2005 e 2006 siano stati, sì, ottenuti giocando, ma dopo poco revocati dalla giustizia sportiva, con tanto di retrocessione e squalifiche di vario ordine e grado. Essere sportivi significa anche accettare le sentenze, esattamente come dovrebbe avvenire coi fischi a sfavore. Sapersi, cioè, riconoscere e saper rispettare un superiore grado di giudizio rispetto alla logica della mera appartenenza: cosa che la Juve, società tornata a recitare un ruolo di prim’ordine a livello continentale (e dunque mondiale), può e deve saper fare, primariamente in nome di quello stile che non può essere un vezzo da vantare solo nel momento della convenienza.
Quelle sentenze ci sono state, le pene sono state scontate e, tra quelle, vi sono state anche le due revoche: punto e basta. Non lo diciamo da anti-juventini, ma da sportivi. E se altri hanno pagato meno, o meno proporzionatamente, non è certo ripristinando un’ingiustizia che si potrà mai sperare di raggiungere un equilibrio stabile.
Al di là di come andrà, tra circa dieci giorni, nella perfida Albione al cospetto di Cristiano Ronaldo e compagni, la Juventus di Allegri (ma pure di Giuseppe Marotta, Andrea Agnelli, Pavel Nedvěd e Fabio Paratici), con la sua forza, la sua normalità, la sua autorevolezza, avrebbe l’occasione di chiudere, simbolicamente, la nerissima pagina apertasi undici anni or sono. Il modo è semplice: accettando quel che è accaduto, con dignità, dimostrando lei, prima e attualmente imbattibile, di saper chinare il capo di fronte a qualcosa più grande di sé, più grande di qualunque principio individualistico. Sarebbe un’inestimabile lezione di stile, che potrebbe poi riverberarsi pure sui comportamenti dei singoli giocatori, anche i più anziani (teoricamente più saggi, quindi più responsabili delle proprie dichiarazioni). E che contribuirebbe a corroborare una normalità di cui il calcio italiano ha bisogno come dell’aria, anche per non prestare il fianco a comportamenti inaccettabili come quelli tenuti, due mesi or sono, da alcuni giocatori del Milan al rientro negli spogliatoi dello Stadium dopo una partita per poco non finita in rissa.
Ve lo assicuriamo: avevamo in canna questo pezzo (dimenticabile, mai ci s’illuda minimamente d’esser utili, tanto meno indispensabili) da tempo, ben prima che il capitano della Signora ci regalasse l’ennesima dimostrazione di quanto, nonostante i social media manager, la sopraggiunta maturità anagrafica, i molti trionfi sportivi, egli rimanga (e sia sempre stato) persona non eccessivamente avveduta in fatto di pubbliche esternazioni. Domenica scorsa, in due post su Facebook comparsi a poca distanza l’uno dall’altro (16.54 e 17.08; chissà, forse temeva che un concetto tanto articolato rischiasse di non esser compreso dai propri seguaci), il portiere bianconero rivendicava per l’ennesima volta i dieci personali scudetti vinti con il club torinese, anziché gli otto contabilizzati dalla giustizia sportiva: cose che non vorremmo leggere, tanto più da chi ha l’onore e l’onere d’indossare la fascia di capitano della Nazionale. Certo, nessuno è perfetto: del resto, parliamo pur sempre del ragazzone che, a Parma, cercò d’iscriversi all’Università (Facoltà di Giurisprudenza) falsificando i documenti relativi al (mai conseguito) diploma di maturità, rischiando la galera e patteggiando per qualche milione (di lire), senza voler essere malevoli, e tirar fuori altre mirabilie che hanno costellata (al pari delle grandi prestazioni sportive) la carriera d’un campione altrimenti ammirevole. Cantava Ivano Fossati: “Ah che disgrazia, le questioni di stile…”, benché siamo sicuri che non si riferisse al pallone.
Lasciando Buffon al suo personalissimo, discutibile pallottoliere, alla Juve diciamo, quindi e comunque, trentatré volte brava, proiettando la mente sul prato verde del National Stadium of Wales, augurando il meglio ad Allegri e i suoi.