Sergio Parisse è il più forte rugbista italiano di tutti i tempi. Alcuni preferirebbero dire Diego Domínguez, altri andrebbero a cercare per nominarli i veri e proprio ‘pionieri’ del nostro rugby union, dell’epoca del non professionismo e dell’Italia che bussava alle porte dell’allora 5 Nazioni.
Io, invece, preferisco dire Sergio. Semplicemente, il più forte: carismatico, dall’infinita esperienza, talentuoso e ammirato in tutto il mondo dell’ovale.
Il capitano internazionale più sconfitto di tutti, ma certamente uno dei più forti. Ma via il primo equivoco: perde tanto perché l’Italia gioca quasi sempre contro i più forti. Vera la crisi, vero il sorpasso dalle potenze delle isole del Pacifico o dal Giappone (non parliamo dell’Argentina…), ma poi nel rugby le qualificazioni mondiali non le fai. Nel rugby non fai amichevoli ma test, che contano tutti e tutti giocano per vincere. Nel rugby affronti quasi sempre chi è più attrezzato di te e ci perdi, spesso e volentieri.
Siamo in crisi (e qui nessuno lo ha negato), eppure senza Parisse avremmo perso decisamente più spesso. Eccolo: 33 anni, 34 a settembre, esordio azzurro nel 2002. A soli 18 anni, contro gli All Blacks a Hamilton (Nuova Zelanda): segno del destino iniziare contro i migliori, contro le leggende. Da lì in poi, 126 gettoni internazionali, di cui il cinquantesimo nel 2008, a soli 24 anni.
Numero 8 di fama mondiale, titolato anche a livello di club (Treviso e Stade Français), in Francia s’è costruito la vita perfetta.
Lo vedo, dopo il trionfo nella finale di Challenge Cup (l’Europa League del rugby, volgarmente), sfoggiare un francese perfetto e parlare dell’identità di una squadra, lo Stade, chiacchierata da più parti negli ultimi mesi per l’idea di fusione col Racing Métro, rivale cittadino. E les Soldats roses avevano bisogno di dire al mondo che ci sono, che combattono, che hanno una dignità e meritano rispetto.
Ecco il Parisse leader dello spogliatoio, nelle dichiarazioni postpartita, coppa in mano: “Non possiamo gestire, come giocatori, le dinamiche che si verificano all’esterno o nel club. Il nostro compito è quello di rimanere concentrati sul campo e, nonostante non sia stato facile, da quando ci è stata annunciata questa fusione abbiamo fatto sempre meglio. Abbiamo iniziato a vincere, giocare meglio e scalare posizioni in classifica, arrivando quasi a qualificarci per i playoff in Top 14 partendo dal dodicesimo posto; oggi poi abbiamo vinto il primo titolo europeo del club, il modo migliore per dare lustro all’immagine del club”.
Man of the Match della finale di Edimburgo, è il nostro orgoglio. Nato in Argentina da genitori italiani (il padre ha vinto lo scudetto 1967 con L’Aquila), in molti lo considererebbero un ‘oriundo’. Eppure, si è speso più di 100 volte con la maglia azzurra e l’ha rappresentata anche a livello di club.
Lo ha fatto anche a Murrayfield, nella finale di una coppa che ha ammesso, ai nastri partenza, squadre russe e rumene oltre a quelle dei club delle 6 Nazioni: anche questo è un segno del destino. Portarsi a casa la coppa più aperta e democratica d’Europa. Da n. 8 di livello mondiale, leader e capitano della Nazionale oltre che di una delle squadre più forti di Francia.