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L’importanza di poter contare su una società

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Si ha un bel parlare, in vista della partita di stasera, della bravura di Max Allegri, dell’ascesa imperiosa di Pablito Dybala (pur cauti coi paragoni, a noi ricorda quanto intravisto, con immane ritardo, d’un certo Omar Sivori), dell’apprezzabile responsabilità (complimenti al social media manager) di Gigi Buffon, calciatore su cui si possono dire molte cose in bene e in male (prima o poi lo faremo), ma sulla cui preparazione sportiva e mentale non è che vi sia troppo da discutere, nonostante chi scrive non lo ritenga il più grande portiere della storia (proprio no).

Stasera verso le 22.45, la Juve staccherà il biglietto per Cardiff: lo diciamo adesso, con tutti i rischi (pochi) del caso, ché i pronostici li padella solo chi li fa. Seconda finale di Champions su tre edizioni, risultato che la apparenta, in epoca recente, a Real Madrid (l’avversaria il prossimo 3 giugno), Atlético, Bayern Monaco, Barcellona e Manchester United, come a dire: il Gotha europeo del nuovo millennio. Doveroso che il giornalismo sportivo, nel suo ruolo da cantore di gesta, magnifichi i risultati dei protagonisti d’un simile e invidiabile traguardo. Anche perché, al di là della vittoria finale, il doppio approdo all’ultimo capitolo sancisce una dimensione del tutto ignota all’exploit singolo, talvolta frutto di circostanze singolari e non più ripetute (ogni riferimento al triplete nerazzurro del 2010 è lecito). È, però, altrettanto doveroso provare a leggere certe dinamiche con lucidità, sottraendosi dalla retorica dell’epica, tentando un’analisi meditata su quali siano, se non le vere, le altre, ma non meno centrali, concause d’un successo di questo tipo.

Se, per esempio, distogliamo l’occhio dall’Augusta Taurinorum bianconera per mirare alle concorrenti nazionali della corazzata tricolore, salta all’occhio il pelago di questioni che si trova (ormai per poco?) a dover sbrogliare Luciano Spalletti, tra un derby andato di traverso e una vittoria a San Siro che qualsiasi altra piazza avrebbe accolta come un trionfo, al di là dell’effettiva caratura d’un Milan davvero malmesso. Ed è paradossale come un 4-1 esterno, colto in uno degli stadi più blasonati al mondo, passi del tutto in secondo piano rispetto all’affaire Totti, col tecnico sulla graticola per aver negato al capitano in pectore l’ultima passerella sull’erba meneghina, anche a fronte dell’encomiabile omaggio tributatogli dal pubblico avversario.

Inutile provare a coniugare l’inconiugabile: gli antipatizzanti spallettiani (non pochi) gridano all’ennesimo affronto perpetrato ai danni della storia del calcio, i non simpatizzanti del Pupone (non pochi neppure loro) ghignano, sibilando maliziosi l’anatema che, da sempre, accompagna uno dei talenti più cristallini del moderno calcio italiano, quello d’aver dimostrato poco lontano da Grande Raccordo Anulare. Hanno tutti ragione, e torto, al contempo. Totti ha certo diritto a essere trattato con rispetto (posto che, a suo modo, essere considerato un giocatore tra i tanti in rosa non è certo lesa maestà, tutt’altro), Spalletti ha senz’altro il diritto di schierare la squadra secondo le esigenze del caso e, in effetti, al minuto 84, sull’1-3, non è che il risultato fosse poi così acquisito. Compito del tecnico è portare a casa i 3 punti e, francamente, l’idea di non rischiare inserendo un giocatore “fermo” ci pare assolutamente plausibile. Ma, ripetiamo, il punto non è questo, e non lo può essere. Anche perché, lo rimarca lo stesso ex centrocampista toscano, se avesse concesso la passerella al giocatore, la critica sarebbe stata quella di averlo “insultato” facendolo giocare soltanto un pugno di minuti.

Da un anno e oltre Spalletti si trova a dover gestire uno spogliatoio tutt’altro che semplice (mai lo è stato e lui stesso lo sapeva sin dall’inizio), con una figura ingombrante come il Capitano, altri senatori non facilmente addomesticabili, in un gioco di equilibri mai e poi mai perfetto. Il tutto, fronteggiando una stampa sempre pronta a “sbranarselo”, qualsiasi impiego facesse del Pupone: o troppo o nullo o troppo poco. Impossibile venirne fuori. O, meglio, impossibile venirne fuori da soli. Ad altre latitutidini (leggasi: Torino, sponda Juve) certe cose non accadono e il motivo è, paradossalmente, molto semplice: esiste una società che spalleggia l’allenatore, lo supporta nelle sue scelte, lo “difende”, sia rispetto alla stampa sia rispetto agli stessi giocatori, troppo spesso forti d’una posizione estremamente più forte rispetto a quella, pericolante per definizione, del tecnico.

Vale la pena rammentare il caso Bonucci, a metà febbraio, col difensore bianconero tenuto fuori da una partita fondamentale e al momento temutissima come quella col Porto (poi vinta), dopo uno screzio di troppo avuto con l’allenatore. Non è assurdo far coincidere con quel momento una delle principali svolte della sinora bellissima stagione juventina: appoggiando il mister, la società ha dimostrato forza, riaffermato l’autorità della guida tecnica e permesso allo stesso giocatore di rientrare nei ranghi fornendo un chiaro esempio anche ai compagni più turbolenti (Dybala, per esempio). La Juve ha “fatto” la società e i risultati ne sono la conferma. Se è vero che i campioni sono un patrimonio da rispettare, pure al declinar di carriera, è altrettanto vero che i giocatori simbolo legati a una e una sola maglia, per quanto non sia facile, dovrebbero avere l’intelligenza di dire “basta” al momento giusto, nell’interesse sia proprio sia del club di viscerale appartenenza. È evidente come questo sia difficile: i casi, distanti l’uno dall’altro, di Del Piero, di Zanetti, e persino di Di Natale, ce lo confermano, e, anche da questo punto di vista, la Juve, in occasione dell’addio a Pinturicchio, pur attirando su di sé non poche critiche, dimostrò di essere un club solido.

Siamo convinti che, per vincere, non sia soltanto necessario assemblare un organico all’altezza (la Roma lo avrebbe già avuto nella stagione che si sta concludendo, almeno per competere in Italia), ma sia irrinunciabile che l’asse club-allenatore risulti a tutti ben saldo, caratteristica che, contrariamente alle figurine, non è facilmente reperibile nel corso di una sessione di calcio mercato.