Il possesso decisivo del Super Bowl. La prima partita della stagione. L’ultima. Quella contro il rivale di sempre. Quella in cui torna il tuo giocatore preferito. Siamo fuori strada: la notte più importante dell’anno in NFL non è da settembre in poi, ma verso fine aprile. E nessuno gioca, niente touchdown, niente intercetti, nessun field goal. La notte più importante in NFL è quella del draft.
Non è stato sempre così nel mondo del grande football. Evitando retrospettive noiose e maniacali, possiamo definire il nuovo contratto collettivo come l’inizio dell’era del draft. Il CBA (collective bargaining agreement), cioè il contratto che regola i rapporti di lavoro con i giocatori da parte dei proprietari delle franchigie NFL, è stato cambiato nel 2011. Inclusa una novità vitale: i contratti per le matricole scelte al draft avrebbero avuto un tetto massimo e il loro primo contratto avrebbe avuto durata di quattro anni. Ciò ha messo fine agli accordi faraonici per i rookie scelti soprattutto al primo giro, ponendo un limite al loro ego tanto quanto al peso di questi contratti sul salary cap delle squadre stesse.
I Seattle Seahawks che vinsero il Super Bowl nel febbraio del 2014 contro la corazzata Broncos annoveravano tra le loro fila Russell Wilson, Jeremy Lane, Bobby Wagner, Bruce Irvin, Malcolm Smith, Byron Maxwell, KJ Wright, Richard Sherman. Tutti questi erano stati scelti nei draft 2011 e 2012. Seattle aveva quindi una difesa sottopagata e “affamata”, composta dei giovani nomi che avete letto, e in più dal quarterback Wilson, che quando si impose come campione del Mondo era solamente al secondo anno tra i professionisti.
Gli ‘Hawks sono uno dei molti esempi di successo del trend in essere in NFL: se sei scarso, ti puoi riempire di matricole e, se hai fortuna e la bravura di farli crescere in modo repentino, entro quattro stagioni ti ritrovi una squadra da Super Bowl che ti lascia molto spazio salariale entro il quale muoverti.
Se sbagli a scegliere, hai comunque lo spazio stesso per porre rimedio. Un anno fa, gli Atlanta Falcons scelsero tre difensori al draft. A febbraio arrivarono al Super Bowl perché costoro riuscirono a imporsi da titolari. Anche se hanno perso molti pezzi dello staff tecnico, i Falcons quest’anno possono ancora puntare ai Playoff, perché avevano spazio salariale a sufficienza l’anno scorso per prendere Alex Mack (miglior centro in NFL) e quest’anno per Dontari Poe (uno dei migliori defensive tackle). Mentre le tre ex matricole prendono – tra tutti e tre – solo due milioni di dollari l’anno.
Veniamo all’esempio odierno più fulgido: i Cleveland Browns. Nel draft che si è svolto settimana scorsa a Philadelphia, i Browns hanno selezionato 10 giocatori in sette round. Scambiando scelte e giocatori con le altre squadre hanno accumulato tutte queste possibilità. Nel 2016 avevano scelto 12 giocatori. Fanno 22 giocatori, circa un terzo di una rosa completa che in NFL sfiora i 60 elementi, che costano pochissimo.
A capo dei Browns, negli uffici del potere, c’è Paul DePodesta, protagonista del moneyball del baseball, che riuscì a fare scuola in MLB all’insegna dell’acquisire giocatori scartati dalle altre squadre che potevano valere di più per la sua. Individuo che nel CBA firmato 2011 prevedibilmente sguazza.
Il lavoro di DePodesta potrà continuare l’anno venturo con altre 11 scelte, già rimediate dalle altre squadre. 33 giocatori in tre anni che andranno a formare l’ossatura di un team che nel 2019 potrebbe avere la moglie ubriaca e la botte piena: stipendi bassi e qualità, con la capacità di inghiottire qualche contratto molto dispendioso, come quelli di Mack e Poe per i Falcons.
Per verificare che la nostra tesi iniziale sia veritiera, possiamo confrontare due squadre.
I Chicago Bears hanno acquisito la seconda scelta assoluta dai San Francisco 49ers in cambio di quattro scelte disseminate in questo e nel prossimo draft. I 49ers hanno scelto dieci volte in questo draft e lo faranno 11 nel prossimo. I Bears hanno avuto solo cinque scelte nel draft del 2017.
San Francisco ha 71 milioni di dollari disponibile di cap nel 2017 e Chicago 21. Nel 2018 invece i 49ers 68 con 42 giocatori in rosa e Chicago 60, ma con soli 29 giocatori sotto contratto.
Per i tifosi di San Francisco le notti del draft di fine aprile sono dunque equivalse a vedere il futuro roseo della loro amata squadra palesarsi sotto i loro occhi. Per quelli di Chicago, invece, a incrociare le dita e sperare che Mitchell Trubisky, quarterback scelto con quella seconda assoluta, valga veramente aver ipotecato i prossimi quattro anni di competitività.
In Europa non siamo abituati a fare i conti in tasca alle squadre di cui siamo simpatizzanti. In assenza di salary cap è ovvio sia così. Ma in America hanno trovato il modo di rendere una banale scelta di giocatori uno dei momenti più cruciali di tutto il movimento sportivo a stelle e strisce. Le ripercussioni del draft sono perenni, i tifosi lo sanno e accorrono in gran numero, dal vivo o collegati in streaming. Si calcola che gli introiti per la città di Philadelphia ammontino a 80 milioni, indotto degli oltre duecentomila visitatori dovuti alla manifestazione.
Riflettendo sul fatto che il draft non è altro che una lettura di nomi, sembra incredibile ci sia tutta questa attesa. La partita più importante dell’anno si gioca su un palco, però, e ormai lo sappiamo tutti.