Editoriali

Ruote spezzate: le contraddizioni di un paese a pedali

C’è qualcosa di inaccettabile, e inconcepibile, e ingiusto, nell’imprevisto addio che oggi il palazzetto dello sport di Filottrano tributerà a uno dei suoi figli più celebri, Michele Scarponi, rimasto ucciso lo scorso sabato a causa d’un incidente stradale consumatosi a poca distanza dal luogo dove saranno svolte le esequie. È letteralmente impensabile l’idea di un Giro 2017 privo di uno tra i suoi interpreti più notevoli, simpatici e bravi: perché Scarponi sapeva unire in sé la serietà del professionista e l’umorismo, scanzonato e naturale, del ragazzo che sa d’aver la gran fortuna di fare il mestiere sognato da bambino, voluto da ragazzo, meritato da adulto.

Non è questa la sede per ribadire quanto altri hanno già, e con efficacia, ricordato di questo corridore bravo e originale, riportando alla memoria momenti controversi come i problemi di doping e felici come la vittoria al Giro 2011, per quanto giunta a posteriori (non ci stancheremo mai di ribadirlo: i positivi li trova solo chi li cerca davvero, e il ciclismo è l’unico sport che processa persino i campioni). Nel ricordare l’allungarsi inesorabile dei professionisti vittime della strada, il caso di Scarponi ci sembra, però, offrirsi come esempio ben al di là della sua tragica fattispecie, investendo una serie di contraddizioni che fanno dell’Italia un caso assai peculiare.

Il Belpaese, nonostante le ultime stagioni altalenanti solo in parte lenite dalla bella vittoria francese di Vincenzo Nibali, è senza tema di smentita una delle grandi patrie del ciclismo mondiale: è vero che la geografia della pedivella è in evidente e costante metamorfosi, che nuovi mondi, sia come bacino di nuovi atleti sia come nuovi scenari di corse, si sono ormai affacciati alle porte dello sport più faticoso ed epico, col risultato di ampliare in modo imprevedibile il circo professionistico. È, però, altrettanto vero che lo Stivale resta sempre, per professionalità diffusa e storia tecnica, uno dei paesi cardine del movimento a due ruote: parliamo non solo di ciclisti, ma di preparatori, costruttori di mezzi, tecnici, d’una vera e propria scuola, giacché, nella storia più che secolare di questa disciplina, non pochi campioni stranieri si sarebbero potuti tranquillamente considerare “italiani” sotto il profilo dell’evoluzione sia professionale sia biografica.
Odiamo la retorica diffusa di chi, sempre e in ogni caso, tende acriticamente a magnificare i prodotti e le eccellenze (a parte apericena, esiste una parola più insoffribile?) tricolori, ma che il ciclismo italiano sia tuttora un’avanguardia di livello internazionale è realtà che neppure i più sciovinisti dei cugini d’Oltralpe, attualmente impelagati in tutt’altre faccende, sognerebbero di mettere in dubbio.

Ebbene: com’è possibile che un paese tanto ricco di storia ciclistica, di patrimonio culturale connesso alla bici, sia da sempre assai carente rispetto agli utilizzatori delle due ruote, al punto da registrare una bassissima percentuale d’impiego di questo pulitissimo mezzo di trasporto? Le statistiche relative agli incidenti stradali che coinvolgono biciclette sono, infatti, allarmanti e ci restituiscono un paese in cui è pericoloso circolare in bicicletta (i dati non sono aggiornatissimi, ma la ricerche in merito, lo garantiamo, si scontrano con logiche d’informazione alquanto bizantine), in cui la scarsa cultura in fatto di sicurezza stradale si traduce in una sconsolante panoramica, anche dal punto di vista scolastico.

Si fa sempre un gran parlare della necessità di rendere meno sedentaria la popolazione, a partire dalle giovani generazioni, ma, quando si tratta di mettere in atto politiche di salute e diffusione dell’attività sportiva, misteriosamente, tutto si arena. Eppure, basterebbe uno sguardo alle grandi città europee (segnaliamo Ljubljana, Budapest, Helsinki, tra quelle non troppo citate, ma anche Madrid e Copenhagen; in Italia, citiamo il buon esempio di Milano, dove, peraltro, un comitato di cittadini ha letteralmente salvato il velodromo Vigorelli da un “restauro” che avrebbe gridato vendetta) per capire come la bici sia, fuor di retorica, un mezzo sia del presente sia del futuro.

Affinché tutto questo diventi possibile, è però necessario lavorare non tanto per l’introduzione di nuove leggi (un aggiornamento al Codice della Strada è fermo da tempo al Senato per mancanza di copertura finanziaria): l’aumento normativo di per sé non può mai essere la soluzione a un problema annoso. È, piuttosto, auspicabile che si operi in profondo per una modificazione radicale della cultura civile e sportiva italiana (i due ambiti non si discostano l’un dall’altro, tutt’altro), per la creazione di piste ciclabili “vere”, sicure e comode, per un impiego sempre più diffuso e popolare della bici, perché, infine, asciugate lacrime e sangue dall’asfalto di Filottrano, qualcosa in meglio possa davvero accadere.

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Igor Vazzaz