Editoriali

Dybala, gli scarpini e Steph Curry

Gli piace portare i calzettoni abbassati, un po’ alla Sivori. Gioca dinoccolato e quando calcia sembra abbassarsi fino a terra. È mancino, ha una marcia in più. Macina un sacco di chilometri durante la partita ma non perde la lucidità. Ha un dribbling micidiale, trasuda classe. È argentino ed è sempre stato quello piccolino, minuto, forse un po’ gracile. In Italia, e non solo, sono già pazzi di lui. L’altro, invece, gioca con le mani e un paradenti. Lo aspettavano da anni, e nonostante le caviglie di cristallo ha onorato l’attesa. Ha portato un titolo a Oakland che mancava da 40 anni. Anche lui è il più mingherlino in un mondo di giganti. È quello che ogni anno si gioca l’MVP col concittadino di Akron LeBron James. Uno è figlio di papà, l’altro di nessuno. Ma questa è un’altra storia…

In soldoni, cosa hanno in comune Paulo Dybala e Steph Curry?

Banalmente, un indiscusso talento. Fanno parte di quella fetta di sportivi a cui appartiene qualcosa di innato che non si può insegnare. L’allenamento, a loro, serve per omologarsi al resto della massa e tenere il ritmo di chi si ritrova sugli stessi campi grazie a fisico e caparbietà. Anche in discipline così diverse come calcio e basket, quando li si vede giocare, emerge l’esasperante facilità con cui pensano due o tre volte prima dell’avversario. Hanno già visto la giocata, il colpo, la stoccata. Risolvono incontri, parlano poco e vincono tanto. Sono trascinatori dalla faccia pulita. Fanno innamorare milioni di appassionati, portano gente in stadi e palazzetti. E sono i migliori sponsor per gli sport da cui provengono.

No, fermi. Sugli sponsor c’è qualcosa in più da dire. Vuoi vedere che hanno anche quelli in comune?

Il giocatore della Juventus, dallo scorso febbraio, gioca sempre con degli scarpini neri. Basta con quei colori fluo, baffi o strisce in vista. Sono i piedi che contano, non il bello. Finalmente un ragazzo che bada di più alla sostanza rispetto all’estetica. No ma forse non è proprio così. È che il contratto con la Nike è scaduto tempo fa e, ancora oggi, Dybala non si è venduto, o concesso, a un nuovo marchio. Semplicemente, si tinge totalmente le scarpe. È lì che tratta sul prezzo. Perché con  il nuovo contrattino, che lo renderà a tutti gli effetti uno dei migliori in circolazione, anche il logo ha importanza. E la deve pagare. Un po’ come l’amico Pogba che, sempre in bianconero, alternò Adidas e Nike finché non arrivò un’offerta allettante da una delle due.

Insomma, un po’ come dire: “Io sono l’affare dei prossimi cinque anni, chi mi vuole mi paghi”. Un discorso cinicamente corretto che potrebbe infastidire i tifosi dal cuore tenero. In effetti stride con le belle parole riservate in precedenza, ma siamo pur sempre nell’epoca del consumismo, che si pretende? In più, mentre si scornano i due marchi più diffusi nel calcio, attenzione all’outsider Under Armour di Kavin Plank, ex giocatore di football. Murray, Phelps e Curry fanno già parte della scuderia ma manca un asso dello sport più seguito in Europa. In più il logo è statunitense, terra dove il movimento calcistico si sta rapidamente sviluppando. Manca la firma, ma Dybala, molto probabilmente, sarà il primo giocatore a firmare per Under. Una cosa in più da condividere con il folletto Steph.

L’importante, Paulo, è che gli scarpini ti rimangano neri, e semplici, dentro. La classe non si può vendere, un filo di umiltà, magari, sì.

Published by
Eugenio Cignatta