Il campionato langue (lo ripetiamo da così lungo tempo che sarebbe proprio bello venir smentiti e giustissimamente sbertucciati), le polemicuzze sull’asse Napoli-Torino (rigorosamente lato bianconero) son servite giusto a mantenere alta la tensione giornalistica per qualche giorno, salvo poi sgonfiarsi alla stregua d’un soufflé mal riuscito: solo l’imperizia di Neto (degno collega di Donnarumma, giorni addietro, e Rubinho, ieri l’altro: a quando un approfondimento sulla sconcertante proliferazione delle papere tra i pali?) ha conferito un quid di vita a un confronto altrimenti senza storia. Max Allegri ha ben “impacchettato” la squadra del corregionale in pectore Sarri, mostrando per l’ennesima volta le stimmate dello stratega di razza, bravissimo a leggere le situazioni, non solo in campo, e a dosare le energie dei suoi. E, per l’ennesima volta, non è riuscito a dissuadere lo stuolo di detrattori interni ed esterni che dubitano sulle sue capacità sin da prima dell’arrivo sulla panchina della Vecchia Signora.
I motivi per cui Acciuga non sia ancora amato da tutti i tifosi juventini rischiano di radicarsi in questioni di psicanalisi collettiva: entrato in punta di piedi all’interno d’uno spogliatoio nient’affatto facile (l’addio di Conte in quel di Vinovo non fu del tutto indolore), ha saputo rivitalizzare un organico ad alto rischio di sazietà riportando il club a una dimensione che mancava da oltre dieci anni, ha rischiato di vincere una Champions, ha resistito a un (parziale?) smantellamento della squadra vincente senza perdere il minimo colpo sul fronte domestico. Risultati indiscutibili, anche per i più ferventi nemici dei bianconeri. Col suo fare scanzonato, la sua ghigna da livornese di Coteto, sempre pronto a dire una cosa intendendone un’altra, condendo il tutto con un sorriso malizioso, tra l’irrisione e la compostezza, Allegri non incendia gli animi come l’invasato Conte e, forse, ne rappresenta una delle più riuscite nemesi: la riflessione contro la furia, l’ispirazione contro l’abnegazione.
L’ultima polemica, scoppiatagli letteralmente in mano, è legata a una frase assai interpretabile, ma che i vari antipatizzanti non hanno esitato un secondo a recepire quasi fosse una bestemmia urlata in chiesa durante una messa cantata: “Sono contento di quelli che fanno il calcio spettacolo, per me lo spettacolo lo si va a vedere al circo“. Sacrilegio. Blasfemia. Orrore.
Dove starebbe, per l’esattezza, lo scandalo? Nel negare che il calcio sia uno spettacolo? Allegri, assieme al collega Giampaolo miglior allievo d’un maestro quale Giovanni Galeone, certo non ignora che il pallone sia anche uno spettacolo, ma rivendica una verità incontestabile che investe questo gioco sin da quando una sfera di cuoio ha iniziato a rotolare lungo un prato britannico, ossia che il football è uno sport con uno scopo preciso: infilare la palla nella rete avversaria. Non esiste nient’altro, né il possesso palla né il premio della giuria né il conteggio dei calci d’angolo. Nient’altro. E non è propriamente un caso che la traduzione letterale di goal sia, in primissima istanza, scopo (con la o aperta, malpensanti che non siete altro).
Non vogliamo esser tacciati di conservatorismo: abbiamo amato, contro altrettanti strenui detrattori, il futebol bailado brasiliano, il suo corollario iberico tiquitaca (manco la grafia corretta hanno usato per l’omofona trasmissione televisiva), e individuiamo nel bel gesto tecnico una delle ormai residuali ragioni che ci vedono disillusi e ostinati ammiratori di questo sport paradossale. Tuttavia, non possiamo misconoscerne una delle caratteristiche più proprie, ossia il profondo, indissolubile legame con l’efficacia del gesto.
Alla fin fine, il calcio è uno dei pochissimi sport in cui non sempre vince il più forte e, soprattutto, non sempre vince chi gioca bene. Uno scandalo logico, da un certo punto di vista, ma anche una risorsa inestimabile nonché la riprova provata che allestire una squadra di calcio non è né potrebbe mai essere operazione programmabile, algebrica, un calcolo. I soldi contano, eccome, ma non sono tutto: abbiamo visto, negli anni, quanti petrodollari son stati spesi per fruttare giusto qualche coppetta o trionfo nazionale.
E abbiamo negli occhi o nel cuore i trionfi, talvolta sporchi e cattivi, di Uruguay, Danimarca, Grecia, del Nottingham Forest di Brian Clough, del Chelsea (del “nostro” Di Matteo poi desaparecido), del Leicester (non proprio poverissimo, ma il fact checking non è attività diffusa dalle nostre parti).
E, allora, sì, ha ragione Acciuga: chi vuole (solo) spettacolo, vada al circo, al cinema, a teatro. Alla fin fine, Max ha dato seguito a una tradizione di “raccomandazioni” che migliaia di allenatori, a ogni livello, hanno impartito ai propri calciatori. Roba del tipo “I lanci li fanno i paracadutisti… e i tacchi, i calzolai“, sino al “Per quello c’è l’atletica…“, destinato ai pedatori inclini particolarmente concentrati sulle proprie prestazioni fisiche.
Il calcio, lo ribadiamo, è uno sport strano: richiede tecnica, anzi, arte (etimologicamente saper fare), una buona tenuta fisica, ma anche molto, molto cervello, una peculiare intelligenza del gioco che chiunque abbia visto giocare, ai tempi, Max Allegri, centrocampista un po’ guascone e dilapidatore di talento, non ha esitato a riconoscergli ampiamente.
Stasera, sul verde manto di Torino, Acciuga avrà una prima occasione, tutt’altro che facile, per (far) vendicare Berlino 2015: spettacolo o non spettacolo, ce la metterà tutta, ben cosciente che neppure un risultato incredibile gli farà dormire sonni tranquilli in attesa del ritorno. Non sarà circo, ma a noi queste partite, sin dall’attesa, piacciono da matti.
E, adesso, la parola al campo.