L’egoismo del tifoso
Bisogna starci. Bisogna accettare che questi siano i rischi del mestiere. Bisogna soprattutto ricordarsi che indossare la maglia della propria nazionale è un onore. L’infortunio di Marko Pjaca ha scatenato la bufera: sui social, tifosi della Juventus imbufaliti. Sì, è vero, il croato è stato parecchio sfortunato in questa stagione, perché già si era rotto il perone, sempre in nazionale; ma sono rischi, questi, che ripetiamolo: chi gioca sa di correre, e accetta. Perché per quanto sia fondamentale la passione dei tifosi, per un calciatore, indossare la maglia della propria nazionale, è un sogno che si coltiva da bambini. Difendere i colori, e l’orgoglio, della propria nazione è un qualcosa che ogni ragazzo con la passione del pallone sente fin da quando muove i primi passi. E non c’è paura, né ingaggio, né rischi che tengano: quando arriva la chiamata del proprio commissario tecnico, l’orgoglio s’impenna. Far parte dei migliori del proprio paese non può che essere un’enorme soddisfazione. Con buona pace dei tifosi, che soprattutto di recente hanno sviluppato un rancore nei confronti delle nazionali incredibile.
Già, incredibile. Perché – perlomeno qui da noi – sembra di vivere in un’Italia federalista. L’orgoglio patriottico, sostituito dal tifo regionale, o cittadino, o semplicemente legato ai colori della propria squadra di club. Anche se poi, al bar con gli amici, tutti rimpiangiamo il calcio romantico di un tempo, quello fatto da calciatori che vivevano di passione e correvano con la maglia azzurra addosso. Al bar con gli amici si parla sempre (sempre) del calcio che c’era e che non c’è più, passando dal dolce ricordo di Baggio che ne fa due alla Nigeria a USA ’94, all’incubo rievocato del golden gol di Trezeguet a Euro 2000. Tutti abbiamo un ricordo dolce o amaro che riguarda la nazionale. Tutti: non si scappa. Nessuno è escluso.
Di infortuni, la storia delle nazionali ne è pieno: solo in tempi recenti, ricordiamo i vari Jordi Alba, Cillesen, Montolivo, Milik, Sergi Roberto, Messi, Neymar. Andando più in là con la memoria, impossibile non pensare a Baresi e al suo andamento claudicante in finale con il Brasile, sempre a USA ’94: si fece male, ma quella partita la giocò fino alla fine. Fino a quei maledetti rigori. Stoico. Tornando un po’ in qua con la mente, invece, impossibile non ricordarsi della rabbia di Cragnotti quando Nesta tornò rotto dal Mondiale ’98, con una richiesta di risarcimento non accolta dall’allora patron biancoceleste. E ancora, il crociato ko di Burdisso nel 2014 ai tempi della Roma, l’infortunio di Diego Forlan quando era all’Inter, e potremmo andare avanti per ore.
Semplicemente, è il calcio. È del tutto normale. Così come è giusto l’indennizzo che la FIFA ha deciso di introdurre per tutelare i club, in caso di lunghi infortuni rimediati dai propri tesserati, quando impegnati con la propria nazionale. Ovvio, è un premio di consolazione, ma cosa si potrebbe fare altrimenti? Chiudere le squadre nazionali? Siamo pazzi? No: forse, solo poco romantici.