Sarà pure un luogo comune, ma è innegabile che l’Italia sia un paese davvero strano, paradossale. Nel calcio come nelle cose più serie (amiamo la definizione che vuol il pallone quale la cosa più seria tra quelle futili e al contempo la cosa più futile tra quelle serie), nel Belpaese, il confine tra colpo di genio e vaccata appare sempre sottilissimo. Allo stesso modo, risultati o contesti dissimili possono sortire impressioni diametralmente opposti, al limite del parossistico.
Prendiamo la Nazionale di calcio che stasera s’appresta a recar visita all’Olanda vantando (mai accaduto prima, almeno nella storia recente) i favori del pronostico a dispetto della trasferta. Gli Orange attraversano una crisi nerissima che coinvolge sia gli equilibri federali (esonerato Blind, comunque una seconda scelta) sia l’attuale assenza di giocatori in attività (abbiamo amato follemente Arjen Robben, adesso un fantasma rispetto al suo meglio, discorso che vale pure per Sneijder) dotati d’uno straccio di autentica personalità: non ci viene in mente nessun olandese che possa avere un impatto sostanziale nella rosa d’un grande club europeo (forse Strootman, ma non ci scommetteremmo), tutto questo come risultato d’un ciclo in esaurimento che ha, comunque, fruttato due podi mondiali consecutivi e di cui la débacle di Euro 2012 (0 punti nel girone con Danimarca più le due future terze in pectore Portogallo e Germania) avrebbe dovuto suonare quale preoccupantissimo campanello d’allarme.
Ed è buffo pensare che proprio a quell’Europeo risale l’ultimo grande piazzamento azzurro: un onorevolissimo secondo posto, in cui la goleada finale subita dalla Spagna non dovrebbe far dimenticare il pareggio al debutto (1-1) ottenuto “inscatolando” Iniesta e compagni. Eppure, Prandelli, il c.t. del codice comportamentale applicato invero un po’ alla carlona, sembra confinato in un oblio ignominioso, macchiato dall’onta brasiliana di due anni dopo e oscurato dalla scintillante stella di Conte, uno che ha utilizzato la Nazionale un po’ come un taxi, alimentando la vulgata che vorrebbe l’Italia del cuoio in crisi di talenti per poi trovar sistemazione in uno dei cosiddetti top club continentali.
A pochi mesi dai rigori di Bordeaux, con un quarto di finale percepito come un risultato encomiabile e assai migliorativo rispetto al valore della squadra (uscita ai rigori contro la Germania campione del mondo), la situazione azzurra appare profondamente mutata, almeno agli occhi della stampa: e se l’attuale tecnico del Chelsea sarebbe stato autore di un mezzo miracolo, con due fiori all’occhiello quali le vittorie contro Belgio e Spagna, adesso non si capisce perché un’onesta utilitaria si sarebbe trasformata in una fuoriserie, giacché al non lamentoso Ventura sembra venga richiesto d’andare a giocarsela in terra iberica, quasi fosse una cosa naturale. Eppure, il bacino di giocatori cui attingere non è mutato d’incanto e, in nove mesi, non è che siano sorti dei talenti mondiali prima ignoti. L’ossatura di questa nazionale è, grossomodo, la medesima della precedente, e gente come Verratti, Parolo, Immobile e Insigne bazzica Coverciano sin dai tempi del “mediocre” Prandelli. Evidentemente, ci siamo persi qualcosa, dato che ci ostiniamo a pensare che un secondo posto sia inesorabilmente piazzamento migliore rispetto a un quarto di finale.
Questione di narrazione, evidentemente, esigenza comunicativa che ai nostri tempi prevale di gran lunga sulla valutazione dei dati oggettivi e pare applicarsi, con tutta la sua virulenza, a ogni ambito dell’informazione. Il calcio italiano, nel suo insieme, vive in tutta probabilità una crisi senza precedenti, ma la stampa non sembra allarmarsene più di tanto: da un lato, la Lega rischia il commissariamento dopo l’Aventino delle “sei sorelle” (più il Chievo) che dichiarano, benché non sia chiaro quali sarebbero i presunti dati oggettivi, di rappresentare “l’80% del tifo nazionale”, ignorando in pessima fede che le competizioni sportive sono composte da tutte le squadre che partecipano (si veda l’NBA, tanto per intenderci, o come viene gestita la ripartizione dei diritti tv nella Premier League inglese); dall’altro, due tra le società più blasonate del nostro pallone coinvolte in situazioni a dir poco paradossali, tra lo spettro della connivenza con la criminalità organizzata e una trattativa di cessione (cos’ha il termine closing di più chiaro rispetto a firma?) divenuta ormai un’autentica barzelletta, degna dei migliori film di Totò e Peppino; dulcis, neanche tanto, in fundo, l’ammissione, passata quasi in secondo piano, tra il puerile e l’impunito di uno degli attaccanti più prolifici degli ultimi anni (Totò Di Natale) che dichiara d’essersi più volte “scansato”, simulando infortuni per non giocare contro la propria squadra del cuore, in barba, regolamenti alla mano, a qualsiasi principio di lealtà sportiva, nonché di etica professionale (e questo vorrebbe pure provare ad allenare i ragazzi). Roba da ufficio inchieste, per un paese in cui, un tempo, sarebbe stata sufficiente una segnalazione, senza onere della prova, per far scattare squalifiche (la giustizia sportiva ha per sua natura un’interpretazione assai più stringente a favore dell’accusa).
“Eppur tutto va bene, va proprio tutto bene“, cantavano i CCCP anni or sono: così sembra cicaleggiare la stampa sportiva italiana, piegando i fatti all’interpretazione più comoda al vento che tira. Per parte nostra, vediamo, leggiamo, appuntiamo, cercando di orientarci (e orientarvi), per quanto possiamo, in tutta questa confusione, con il sospetto, neppure troppo leggero, che il tanto dileggiato wrestling non sia poi tanto meno credibile dello sport più bello del mondo e solo una passione che s’approssima alla fede (cieca per definizione) giustifica l’attaccamento e l’interesse che gli tributiamo.