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Perché riposare non sarà più consentito in NBA

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Da più di una settimana, in NBA, c’è un argomento di discussione che sta dividendo l’opinione pubblica statunitense: il cosiddetto “resting”, il riposo non forzato da problemi fisici. In Europa e, in particolare nel mondo calcistico, il turnover è una pratica molto utilizzata da allenatori che si ritrovano a fare i conti con periodi di notevole stress fisico per i propri giocatori, soprattutto quelle impegnate nelle competizioni europee. Nonostante il calendario NBA sia a dir poco fitto, però, quella di schierare tutti i migliori giocatori in ogni singola partita (magari con un minutaggio minore, ma pur sempre presente in campo), al fine di favorire lo spettacolo, è una sorta di regola non scritta.

Una pratica che, in caso di partite trasmesse in diretta nazionale, è decisamente invocata dalla lega stessa. E’ innegabile come l’obiettivo di Adam Silver e soci sia quello di rendere il basket americano ancor più “esportabile” nel mondo, e per farlo c’è bisogno che tutte le superstar più importanti, negli incontri di cartello, scendano in campo a duellare. Gregg Popovich e i San Antonio Spurs, in realtà, in passato hanno spesso aggirato questa regola facendo riposare contemporaneamente tutte le stelle principali (Parker e, soprattutto, Duncan e Ginobili per motivazioni anagrafiche); e proprio per questo motivo, infatti, il tecnico dei texani è stato multato dalla lega poiché ogni franchigia NBA, nel fornire la distinta ufficiale, è obbligata a spiegare le motivazioni che hanno portato un determinato giocatore a non far parte dell’incontro. La motivazione “rest”, ossia riposo, non è quindi ben vista dalla lega e le squadre aggirano questo limite fingendo influenze dell’ultimo minuto o infortuni nel riscaldamento che, per via precauzionale, escludono dalla partita Tizio o Caio. Ma la Lega ha già chiarito che multerà qualunque squadra non fornisca adeguati referti medici di supporto alla propria tesi.

Adam Silver ha già spiegato come la preseason NBA verrà ufficialmente accorciata a partire dalla prossima stagione, di conseguenza le 82 partite del calendario verranno spalmate su un’ulteriore settimana, diminuendo le partite in back-to-back e anche i periodi in cui vi sono anche quattro partite in cinque giorni, magari tutte in trasferta, con migliaia di chilometri da percorrere in meno di una settimana. Questa pratica è tornata al centro dell’attenzione mediatica per un motivo solo: Golden State Warriors e San Antonio Spurs, infatti, si sono di recente scontrate ma praticamente senza far scendere in campo i migliori giocatori. Chi per riposare, chi per infortunio, chi per problemi di salute seri (Aldridge, allarme per fortuna rientrato). L’incontro tra le due migliori squadre della Western Conference, quindi, si è trasformato in una sfida tra panchine, tanto che la diretta Sky in Italia è stata cancellata e in America gli ascolti televisivi sono stati nettamente più bassi rispetto alle aspettative.

Per aumentare lo spettacolo in NBA c’è una soluzione: diminuire il numero delle partite, perché stiamo comunque parlando di essere umani e non di automi indistruttibili. Non avverrà mai, sia chiaro, e anche il sindacato dei giocatori, in passato, ha espresso posizioni non chiare perché ridurre il numero di partite, ovviamente, ridurrebbe lo stipendio degli stessi per via dei minori introiti derivanti dalla vendita dei diritti televisivi. E’ sacrosanto, però, che un allenatore abbia il diritto di utilizzare i propri giocatori nel modo che più ritiene opportuno, soprattutto perché in caso di insuccesso sarà lui stesso a pagarne le colpe. Va bene lo spettacolo, ma la pallacanestro resta comunque uno sport agonistico in cui un presidente investe e un allenatore mette in campo i giocatori, davanti ai propri tifosi. Che siano quest’ultimi o addirittura le televisioni a decidere chi e quando debba giocare, onestamente, è un modello che non mi sento di appoggiare e condividere.