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Della (relativa) importanza delle regole per la cultura sportiva

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Manca pochissimo alla chiama di bianconeri e Dragões da parte del romeno Ovidiu Hategan e ancora stiamo parlando, bene o male, di Juve-Milan: del resto, chissà se ci sarà stato il tempo di ripulire il corridoio che dagli spogliatoi porta al campo da gioco, quell’interno di stadio che le tv ci propongono soltanto per mostrare ruminanti con le cuffie e non, invece, quando il diritto di cronaca potrebbe portare alla luce qualcosa di interessante (ossia scomodo). Segno dei tempi per una democrazia tecnologica a proposito della quale asserire che chi gestisce l’informazione (leggasi Infront) abbia buona parte del potere sarà, forse, ritornello consumato, ma non per questo meno vero. E, quindi, accuse su accuse, rinfacci, malanimi, nel pavloviano riproporsi delle stesse dinamiche, come fossimo (e forse lo siamo) una famiglia tanto sfasciata quanto inseparabile, senza la benché minima speranza di una palingenesi che possa “azzerare” tutto il male accumulato sinora.

Inutile seguire i vari soggetti e le loro ancor più varie argomentazioni, giuste o sbagliate che siano: non scopriamo da oggi che ogni punto di vista può avere una sacrosanta giustificazione, a patto d’essere in grado di sostenere con abilità una tesi, derubricando il confronto nel merito a una non banale questione di tecnica retorica. Il punto, ci pare, è proprio un altro e affonda le radici in quella che chiameremmo cultura sportiva e che, al contempo, ci sembra qualcosa di strettamente connesso, a mo’ di corollario, con la cultura civile, con il senso d’appartenenza a una comunità complessa che comprenda sia la “nostra” parte sia quella dei nostri più acerrimi avversari, i quali, terminate le contese, smettono d’essere “nemici” per diventare (o tornare a essere) pure e semplici interlocutori. Questo è quello che avviene nelle nazioni (non solo sportivamente) civili, estranee all’inquinamento d’una cultura del sospetto che è complementare rovescio della medaglia d’un mondo incapace di pensare “oltre” il confine del proprio campanile, del proprio tornaconto, in una spirale infinita di recriminazioni il cui unico e autentico effetto sarà l’eterna perpetrazione dello scontro, senza soluzione di sorta.

Ed è altrettanto inutile pensare che la situazione possa essere sciolta dall’intervento di nuove regole, di nuovi sistemi di controllo, dall’invocatissima tecnologia per dirimere le più delicate questioni arbitrali: là dove non vi siano i presupposti per una minima fiducia nei confronti di chi gestisce le decisioni, l’incremento di funzionalità elettroniche farà, al limite, spostare il “segmento critico” cui attribuire ogni colpa (la regia televisiva, l’arbitro deputato a prendere la decisione definitiva, e via andare), ma in nessun caso potrà spazzare via l’alone di sospetto che è parte integrante del “nostro” modo di concepire lo sport, sia come strumento d’affermazione no matters what, a prescindere dal “merito” (tipico esempio: l’esaltazione comoda della furbizia dell’attaccante abile a cadere per procacciarsi il rigorino), sia come incapacità pneumatica di gestire o accettare una sconfitta senza lanciare indignatissimi j’accuse al mondo intero.

E proprio in uno dei momenti più critici, in senso sportivo, per la nazionale italiana di rugby reduce da un filotto più che preoccupante di rovesci in campo, prendere spunto dal mondo della palla ovale potrebbe, forse, giovare non poco al malmesso pallone italiano: è vero, lì la moviola in campo esiste (in Italia-Francia il TMO è stato consultato due volte, per vanificare una meta per parte), ma anche se non fosse stata introdotta, il rispetto “sacrale” delle regole e delle decisioni dell’arbitro è qualcosa d’indiscutibile. Il che non implica l’assenza di dubbi, confronti accesi, attriti, figuriamoci: ma che, una volta fischiata la fine, la partita è conclusa e si guarda avanti. Si discute di scelte, di tecnica, anche di regole, ma proiettati in avanti.
Sembra poco, in realtà è moltissimo.

Vero è, d’altronde, che in un Paese del tutto e da sempre incapace di mettersi d’accordo sulla propria struttura civile, storica e culturale, chiedere proprio al mondo dello sport d’essere “migliore” suona davvero come una pretesa improponibile.