Abbiamo vissuto un fine settimana tempestato dal punto di vista arbitrale. Del resto non poteva essere altrimenti nel giorno di Juventus-Inter, sfida che negli ultimi anni è stata l’icona delle vicende extracalcistiche. I direttori di gara non hanno avuto vita facile nemmeno nel tennis, perché l’assurda quanto codarda palla lanciata dal russo Shapovalov contro il volto del giudice francese Arnaud Gabas è un qualcosa di inconcepibile per un professionista sportivo. L’arbitro è giudice, si può obiettare, si può non essere in piena sintonia con le sue decisioni, ma si deve accettare il verdetto evitando di trascendere in altro.
Uno spunto interessante sull’argomento lo ha dato domenica scorsa il CT della nazione italiana di rugby Conor O’Shea al termine del match perso contro il Galles. Il rugby, lo sport del tanto cuore e del terzo tempo, avvolto spesso in una retorica esageratamente buonista che rischia di penalizzare una disciplina emozionante. Eppure anche i rugbisti nel loro piccolo hanno qualcosa da ridire ogni tanto sulla conduzione di gara arbitrale.
O’Shea, un irlandese che in modo molto british ha voluto sottolineare in conferenza stampa la differenza quantitativa sulle assegnazioni delle punizioni, una sorta di due pesi due misure come ha indicato qualcuno. Il CT azzurro ha parlato di percezione con cui gli altri guardano noi e gli avversari, un’alternativa molto soft per evitare di usare un termine più rustico come sudditanza psicologica arbitrale. Nel caso specifico un’Italia piccola contro un Galles di tradizione e più blasonato; un rapporto troppo sbilanciato che può farsi sentire in campo e influenzare alcune decisioni. Insomma un sassolino dalla scarpa che il nostro tecnico ha voluto levarsi a fine partita. Ciò che più colpisce sono le dichiarazioni successive. Nessuna campagna contro palazzi, federazioni o associazioni arbitrali, nessun titolone o minaccia da far apparire sui giornali. Non c’è un’equa percezione delle due squadre? Bene, per O’Shea il compito degli azzurri è quello di diventare più competitivi per fare in modo che questo presunto gap sparisca.
La morale di tutto ciò è che dare un proprio giudizio civile sulla direzione di gara è lecito e non deve essere vietato, perché sarebbe da ipocriti farlo. È sbagliato invece concentrarsi e focalizzare l’analisi di una partita solo ed esclusivamente su un episodio arbitrale, identificato troppo spesso come la causa unica di una sconfitta: atteggiamento che in molti, soprattutto nelle serie giovanili, finiscono per emulare. L’atteggiamento di O’Shea e il suo pensiero sono corretti, perché ci sono state decisioni poco condivise, ma la partita di certo non si è persa per questo, anzi ha dato pieno merito agli avversari. C’è un senso di sportività da esportare ad altri ambiti in cui si esagera con affermazioni e minacce. In tutto ciò va ricordato anche che nel rugby esiste la moviola in campo, uno strumento visto come un ausilio per l’arbitro e non come una tecnologia per limitare la malafede delle giacchette nere.