Sarà colpa della sorte avversa, delle promesse non mantenute, sarà un caso che non si ripeterà in futuro, ma ci pare abbastanza innegabile che il campionato italiano di calcio sia finito in largo anticipo. Non parliamo soltanto della corsa allo scudetto, ché solo qualche inguaribile ottimista poteva sperare in un serio calo juventino (come no: Max Allegri è un pessimo allenatore e qualsiasi lettore da bar non farebbe di peggio), ma, soprattutto, della lotta per non retrocedere e la corsa per guadagnarsi qualche posto al sole: sia esso quello caldo (e remunerativo) della Champions o l’assai meno attraente e palliduccio della consorella Europa League (ma il problema del ranking internazionale era tutta colpa di Udinese e Sampdoria…).
Quel che ci pare davvero incredibile, posto che i pronostici li sbaglia solo chi li fa e che molte cose (ma non tutte) possono ancora accadere, è come tra riunioni di Lega, confronti, idee, convegni sul marketing e la comunicazione strategica (ci scommetteremmo: a parole, tutti a parlare dell’esempio del football americano, nei fatti nessuno prima di ieri sapeva chi fosse Tom Brady), nessuno sembra porsi davvero l’autentico problema del calcio italiano: la competitività e la conseguente appetibilità del campionato. O dei campionati, là dove è vero che, scendendo di categoria, le sorprese non mancano, mentre le carenze riguardano una tenuta generale del sistema, tra formule in perenne cambiamento e incertezze circa la salute economica dei club.
Non si tratta, infatti, di un mero interesse da appassionati, quanto, a nostro avviso, di una questione emergenziale: non sarà un caso che quello appena trascorso sia stato il mercato di riparazione più in sordina di sempre, con movimenti minimi e scarse probabilità di impattare sensibilmente sul cammino della Serie A.
La scarsa competitività del campionato può avere effetti perniciosi a più livelli: sotto il profilo della valorizzazione dei giocatori, in primis, dato che scendere in campo (quasi) senza scopi difficilmente contribuisce al livello del gioco (si pensi alla proverbiale svogliatezza nelle amichevoli della Nazionale); dal punto di vista delle scommesse, perché, pur non volendo pensar male, le deficienze in termini motivazionali senza dubbio si riverberanno anche sul betting; infine, l’aspetto meno immediato, ma più importante, ossia quello della “vendibilità” della Serie A sul piano dei diritti televisivi in campo internazionale, dovendo competere con autentiche “corazzate” quali la Premier League inglese (in assoluto il campionato più televisto al mondo), la Liga spagnola (probabilmente il più tecnico) e l’arrembante Bundesliga tedesca, avversarie durissime da superare (per tacer della Francia), per guadagnare la posizione dei bei tempi che furono, quando la A era indiscutibilmente il campionato più bello del mondo.
Non si tratta soltanto di impianti fatiscenti, argomento spesso tirato in ballo a sproposito per celare carenze tecniche o tirar volate agli inserzionisti dell’edilizia, ma di un’idea complessiva di calcio, di una visione del fenomeno che sappia elevarsi al di là degli interessi particolari che paralizzano il sistema, per poter rilanciare davvero quello che resta, almeno alle nostre latitudini, lo sport più efficace nel veicolare un rapporto d’identità con tifosi e appassionati. Non sappiamo dire, in tutta sincerità, se questa impasse potrà risolversi, a breve o nel lungo periodo, né se gli uomini che si profilano all’orizzonte possano avere chance di incidere positivamente, in direzione di un cambiamento efficace. L’uomo nuovo per la presidenza della Lega Calcio, notizia dell ultime ore, parrebbe essere Walter Veltroni: al di là del pungente dettaglio da più parti rinfacciatogli ossia di non aver chiusa la carriera pubblica per poi riparare in Africa (non sarebbe certo né il primo né l’unico politico a essersi rimangiata la parola), l’impressione è che servano idee e praticità ben più dei nomi da copertina. Chi vivrà, vedrà: intanto, aspettiamo che Champions e Coppa Italia ci destino dal torpore di quattro mesi di amichevoli.