Sarò onesto fin dall’inizio: chi vi scrive è un grandissimo tifoso di Roger Federer e, come tale, è immensamente contento del ritorno alla vittoria in una finale dello Slam da parte dello svizzero.
Ma, doverosa premessa a parte, dire che si è assistito al miglior epilogo possibile per questi Australian Open 2017 non è assolutamente fazioso.
Roger Federer ieri ha vinto il suo diciottesimo titolo dello Slam alla veneranda età di 35 anni (ad agosto sono 36, in verità), cinque anni dopo il suo ultimo titolo, quel Wimbledon 2012 vinto — quasi dominato — contro Murray, contro cui un paio di mesi dopo avrebbe perso la finale olimpica sullo stesso campo. Nonostante i 18 titoli Slam, nonostante una carriera ricca di successi e nonostante una classe cristallina, unita a un’eleganza e coordinazione senza eguali sicuramente tra i suoi contemporanei e probabilmente anche tra chi ha giocato prima di lui, c’era una buona fetta di addetti ai lavori e di appassionati che non riusciva a reputarlo il più forte di sempre a causa di un unico, grosso, difetto: la sofferenza psicologica patita contro il suo più grande avversario, Rafa Nadal.
Io ho avuto la fortuna di assistere a tutte le finali Slam giocate dal campione svizzero e questa sofferenza mentale, che ho sempre soprannominato “nadalite”, effettivamente c’era ed è sempre stata la protagonista delle finali giocate tra i due. Lo spagnolo aveva delle qualità — naturali (l’essere mancino) e fisiche (la forza e la resistenza) — che riuscivano a crepare e in qualche caso distruggere l’autostima del giocatore più forte di sempre. Federer non ha mai sopportato il fatto che per vincere un punto contro Nadal bisognava giocare almeno due o tre vincenti di fila, che servisse sempre un colpo in più del dovuto per vincere uno scambio, che una palla ormai persa si potesse trasformare in un’occasione di ribaltare le condizioni psicologiche di un game, di un set, di una partita. E questa nadalite si manifestava sotto forma di errori gratuiti, colpi giocati senza la necessaria profondità, percentuali di prime in campo bassissime. Come la cryptonite faceva diventare Superman un essere umano come tutti, così la nadalite rendeva Federer un giocatore normale, battibile.
E per questo non c’è mai stata unanimità sul suo essere il più grande di sempre.
Perché oggettivamente le sconfitte patite negli ultimi anni contro Djoković sono state ben diverse da quelle patite contro Nadal: contro il serbo al massimo del suo strapotere fisico e tecnico si è sempre presentato un Federer che stava percorrendo la parabola discendente della sua carriera e che era — indiscutibilmente — più debole del suo avversario; contro il maiorchino, invece, Federer ha perso anche quando era nel momento di maggiore splendore della sua vita sportiva e la finale epica di Wimbledon 2008 è lì a ricordarcelo.
Ed è per questo motivo che la finale di ieri è così importante, perché ridà luce sull’unico angolo buio di una carriera meravigliosa.
Non che ieri non siano affiorati momenti di nadalite, per carità. I suoi errori gratuiti in alcuni momenti chiave della partita Federer li ha fatti, ma recuperare dal punteggio di 1-3 al quinto set vincendo alla fine 6-3 contro Nadal è qualcosa che nemmeno i tifosi più accaniti avrebbero mai sperato potesse succedere. Ha dimostrato una forza mentale e una determinazione che contro lo spagnolo non ha mai avuto nemmeno quando aveva 25 anni ed era per distacco il migliore del mondo.
Entrando un po’ sul tecnico, l’analisi della finale di ieri può essere riassunta così: Roger Federer è invecchiato meglio di Rafael Nadal. Cercando di essere più chiaro, lo svizzero negli anni ha migliorato moltissimo il suo rovescio, che è sempre stato cruciale nell’incrocio con il dritto mancino dello spagnolo durante gli scambi lunghi (credo che sia la prima volta che vedo Federer giocare meglio di rovescio che di dritto — suo colpo preferito — una partita). Dal canto suo, invece, Nadal ha perso qualcosa in termini di esplosività e di forza, migliorando invece il servizio. Rendendosi, quindi, più simile a Federer (o meglio, meno diverso) di quanto non lo fosse dieci anni fa. Questo ha permesso allo svizzero di poter giocare e vincere anche scambi dal fondo, cosa impensabile nelle finali passate, e di non demoralizzarsi dopo gli scambi superiori ai quindici colpi. Non è un caso che nella finale di ieri lo scambio più lungo sia stato di ventisei colpi — ottavo game del quinto set — e l’abbia vinto Federer. Come non è un caso che la durata della partita sia stata relativamente breve, per essere durata cinque set. A testimonianza che anche Nadal non abbia cercato perennemente di allungare gli scambi come invece faceva da giovane.
Ma a dispetto delle analisi tattiche e tecniche su una delle più belle partite mai viste, l’aspetto fondamentale è stato proprio quello psicologico, che ha permesso a Federer di prendersi una grande rivincita nei confronti del suo rivale di sempre e che, forse, ha dissipato ogni dubbio sul fatto che sia lui il più grande di tutti i tempi.
Roger Federer, onore a te, onore al re.