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Il calcio divaricato e i pericoli dell’inflazione

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Non è certo una nuova tendenza, nel calcio contemporaneo, quella di escogitare sistemi per aumentare il numero di partite, con la tetragona convinzione che al crescere della quantità di prodotto in commercio debba forzatamente corrispondere un incremento dei ricavi dalla vendita del medesimo. Ed è in questo senso che vanno le ultime decisioni intraprese dalla FIFA del nuovo corso di Gianni Infantino, il quale, da poco insediatosi, sembra dar séguito, almeno sotto questo punto di vista, alle strategie che già furono gli architravi operativi delle gestioni Havelange e Blatter.

Il discorso è, in apparenza, abbastanza semplice: l’allargamento dei mondiali a 48 partecipanti (misura in vigore dall’edizione 2026) consentirebbe di portare a 80, anziché 64, le partite disputate nel torneo, avendo quindi più occasioni di vendita dei diritti televisivi. La mossa è politicamente astuta, giacché a beneficiare dell’ampliamento sarebbero le federazioni regionali calcisticamente più deboli, in particolar modo CONCACAF (Nord America), AFA (Africa) e AFC (Asia), con le storiche potenze UEFACONMEBOL a storcere il naso, senza avere grosse possibilità di intervento. Peculiarità della democrazia pallonara: le nazioni piccole e non particolarmente importanti sotto il profilo tecnico (o storico) sono in numero largamente maggiore rispetto ai paesi-traino, e finiscono, quindi, per avere un impatto per certi versi sproporzionato (perché proporzionato) quando si tratta di prendere decisioni globali. Infatti, dei nuovi 16 posti disponibili nel passaggio da 32 a 48, nessuno spetterebbe a Sudamerica ed Europa.

Le reazioni alle nuove decisioni non si sono fatte attendere: il consorzio dei club del Vecchio Continente, riuniti nell’European Club Association, ha emesso una nota piuttosto categorica, ma il governo del pallone ha buoni argomenti per difendersi, affermando di aver rispettato, nella sostanza, le varie richieste che erano state fatte pervenire da parte delle grandi squadre di club, prima fra tutte la necessità di non aumentare il numero di incontri per singola squadra. L’impegno è stato, in effetti, mantenuto: il numero di partite disputate dalle squadre che arriveranno a giocarsi il titolo resta sette, come nelle edizioni a partire da Germania 1974.

Nell’insieme, la questione cruciale è legata all’ipotesi di assistere a un’ulteriore divaricazione tra il calcio delle nazionali e quello dei club, fenomeno da tempo in atto e cui corrisponde, spesso e volentieri, una profonda differenza nell’interpretazione del gioco tra calcio feriale, quello dei campionati nazionali e delle coppe, e festivo, ossia quello delle grandi manifestazioni tra nazionali.
Se, infatti, la concentrazione di immani risorse economiche in un numero ristretto di club favorisce l’ingaggio dei migliori giocatori e un teorico sviluppo della qualità del gioco (per fortuna il calcio è anche qualcosa di ineffabile e non la traduzione aritmetica di principi matematici), l’allargamento della base di partecipanti unito ad alcune nuove regole (come l’ipotesi di eliminare il pareggio e far calciare i rigori dopo 90 minuti in caso di patta negli incontri dei primi turni) avranno come probabile conseguenza quella di facilitare le “piccole” con buoni assetti difensivi, come avvenuto ai passati mondiali, con Grecia e Costarica, e all’Europeo 2016 con Galles e Islanda (e, perché no? Pure il Portogallo campione).

Qualità da un lato e imprevedibilità dall’altro? È un’ipotesi, anche se, francamente, non siamo così convinti che una simile tendenza possa davvero convenire in termini sistemici. Il calcio che sogniamo, e che sicuramente non vedremo realizzarsi a breve, è uno sport ancora popolare, nel senso autentico del termine, in grado di veicolare, in modo tanto sano quanto efficace, passione e identità. Una disciplina in cui i maggiori campionati siano composti da non più di 18 squadre (meglio 16, a dire il vero), con un numero limitato di partite, magari da vender meglio, abbandonando il principio, invero abbastanza ingenuo, “più prodotto uguale più profitto”. La qualità, sempre e comunque, è e dovrebbe essere il valore principale di un bene da vendere.

Le soluzioni non sarebbero utopistiche: basterebbe provare a vedere come funzionano altri sport. Dal basket, per esempio, si potrebbe riprendere l’usanza di usare le principali manifestazioni come forma di qualificazione alle altre. Esempio: non ha senso l’idea che il campione in carica rischi di non poter difendere il titolo conseguito. E, ugualmente, non ha senso che i campioni d’Europa, d’Asia e così via, possano non essere tra chi si disputa il mondiale successivo alla propria vittoria. Lo stesso, ovviamente, dovrebbe valere in senso opposto. In questo modo si ridurrebbero le partite (inutili) tra nazionali, ovviamente stando bene attenti a non eliminare del tutto le qualificazioni (magari con tornei ad hoc), occasioni preziose per far confrontare (e crescere) le nazionali più piccole con le squadre più blasonate.

Allo stesso modo, dal football americano si potrebbe campionare l’intelligentissima tendenza a non inflazionare il prodotto e, anzi, a migliorare la sua appetibilità mediatica, rendendolo ancora più “speciale”. Questo è, tradizionalmente, periodo di Super Bowl: ci si è mai chiesti perché si tratti dell’evento statunitense per eccellenza, sia in senso sportivo sia in senso televisivo? I diritti di trasmissione di spot pubblicitari sarebbero i più costosi di tutta la tv USA se le partite fossero 3, o 5, anziché una sola?
Domande cui varrebbe la pena provare a rispondere, a ogni livello, se, davvero, l’interesse sarà anche sportivo e non solo mirato a un aumento, miope e controproducente, dei fatturati nell’immediato.
Non ci piace fare i profeti di sventura, ma dobbiamo confessare che non nutriamo grandi speranze.