Oddio, non proprio. Da Libreville, capitale del Gabon situata sull’oceano Atlantico e attraversata ideologicamente dall’Equatore, al Kilimangiaro ci passano qualcosa come cinquemila chilometri. Un po’ più distante dalla zona in cui Edoardo Vianello collocava i Watussi nella sua celebre canzone. Eppure, nell’immaginario collettivo italiano, il monte più alto del Continente Nero è stato il simbolo più appropriato per un popolo, quello africano, che ha sempre fatto dell’altezza e della prestanza fisica due delle sue più celebri qualità.
E chi se ne frega se per tre settimane il cuore pulsante del calcio africano sarà in Gabon, dall’altro lato della costa rispetto al Kilimangiaro. Quel simbolo, anche in questo sport, funziona eccome. Da sempre, infatti, noi europei, unici e sommi custodi dei segreti del football, abbiamo guardato verso l’altro lato del Mediterraneo con uno sguardo di superiorità, quasi di razzismo calcistico: “sono forti fisicamente, ma di tattica non ne sanno”, “atleticamente fanno paura, ma sono lontani anni luce dal punto di vista della qualità e della tecnica”. Negli anni ’90 (e forse anche prima) questi erano i luoghi comuni più diffusi quando si parlava di calcio africano.
Ma oggi è ancora così? Negli ultimi trent’anni cosa è cambiato? Difficile stabilire se il calcio africano abbia raggiunto o meno il livello di quello europeo, di sicuro si è avvicinato, riducendo nettamente quella forbice che in passato era evidente, e forse si è mischiato con esso fino a confondere i propri confini. La qualità fisica del loro modo di giocare a pallone è ancora un aspetto predominante, e non potrebbe essere altrimenti viste le loro oggettive caratteristiche atletiche, ma negli ultimi decenni l’Africa ha iniziato a sfornare una quantità di talento non indifferente.
Da Weah in poi, infatti, tanti calciatori africani hanno trovato fortuna in Europa e fatto la fortuna dei club che hanno puntato su di loro. Tre nomi su tutti: Samuel Eto’o, Didier Drogba e Yaya Touré. Tre prototipi di calciatori vicini alla perfezione: potenza, agilità, intelligenza tattica e qualità sopraffina. Quest’ultimo non ci sarà in Gabon, ma la Costa d’Avorio proverà comunque a difendere il titolo conquistato due anni fa in Guinea Equatoriale. E lo farà con un gruppo in cui spiccano alcuni giovani come Bailly, Kessié e Zaha. Ma non ci sono soltanto gli Elefanti; il primo nome che viene in mente, in questo senso, è quello di Aubameyang, uno dei centravanti più completi del panorama internazionale. Magari vivrà una Coppa da profeta in patria, chi lo sa.
L’algerino Riyad Mahrez, protagonista del Leicester dei miracoli di Ranieri, è un altro giovane africano di cui tutto si può dire meno che non possieda qualità. Ma come lui tanti altri: dai “nostri” Salah e Keita Baldé, al tunisino Wahbi Khazri o al senegalese Sadio Mané del Liverpool. Insomma, una manifestazione storicamente imprevedibile, che si preannuncia ricca di spettacolo. E di talento, nonostante tutto.
Altri due dati ci portano a pensare che i confini fra calcio europeo e africano, in fondo, non sono così netti. Intanto, a giocarsi il titolo saranno soprattutto africani che militano in Europa: dei 368 convocati (23 per ognuna delle sedici Nazionali partecipanti) ben 237 giocano nel Vecchio Continente (una percentuale del 65%). In secondo luogo, risalta il fatto che dodici commissari tecnici su sedici sono europei, a ulteriore testimonianza che il calcio africano è man mano sempre più europeo e viceversa.
Di questo passo, arriverà anche un’affermazione africana ai Mondiali. Gli amanti del genere l’attendono da troppo tempo. Nel frattempo, questo gennaio calcistico, avaro di emozioni e di partite infrasettimanali, ci regala il fascino di una Coppa d’Africa tutta da gustare: pura ed esotica, senza pregiudizi e senza l’incombenza di dover fare il tifo per forza per la squadra della propria città o del proprio Paese. A chi ama il calcio, in fondo, questo basta e avanza.
Buon divertimento e buona Coppa d’Africa a tutti.