Il coraggio di dire sì
Ci vuole un atto di coraggio, oggi, a schierarsi nel dibattito calcistico.
È di moda conservare, sempre. Essere luddisti, in pratica: il nuovo ci porterà alla rovina, udite udite.
E pazienza se tutto ciò che viviamo oggi è stato, di suo, nuovo in passato. Cambia lo stemma della Roma? Dio ci salvi. Europeo a 24 squadre? Male assoluto, vade retro.
E così via, per ogni cosa. Ignorando, spesso e volentieri, la logica.
Per esempio: di fatto scrivere Roma – marchio leggermente performante dal 753 a.C. – sul logo del club proprio una pazzia non sembra; non parliamo, poi, dell’anomalia per cui, sino allo scorso anno, Europeo e Mondiale facevano un’uguale scrematura delle nazionali di area UEFA. Unico sport al mondo, peraltro: è logico che qualificarsi a un torneo continentale sia un attimo più facile rispetto al mondiale, come effettivamente accade ora.
Il caso di questa settimana è, naturalmente, la Coppa del Mondo a 48 squadre. Tutti inorriditi; livello che scende, europee che pesano sempre meno (residui di colonialismo?), squadre barzelletta che andranno a giocarsi il mondiale.
Sono gli stessi, attenzione, che hanno messo in croce Thomas Müller per un parere calcistico che una sua ragionevolezza ce l’aveva. Vogliono la botte piena e la moglie ubriaca; si schierano coi piccoli a parole ma non alla prova dei fatti: beati loro e la loro flessibilità.
Che le nazionali europee perdano centralità nella struttura di una Coppa del Mondo è la cosa più intelligente possibile. Soprattutto in uno sport realmente globale come il calcio, giocato professionalmente a ogni latitudine e universale nella sua diffusione. Oltre che nell’audience che riesce ad attirare: se i maggiori campionati di club spostano le partite per regolarsi sul fuso orario di certe popolose regioni dell’Asia, qualcosa vorrà dire.
Ingiustificato l’allarme sul livello, almeno a un primo sguardo. Non è più il calcio dei cappotti, o perlomeno quando arrivano non guardano al ranking: è il Brasile primatista di titoli ad averne prese 7 dai tedeschi, non la Nuova Zelanda. Che, piccina piccina, nel 2010 s’è tolta lo sfizio di fermare noi 4 volte campioni iridati; come giustamente ha scritto Marco Toselli su Sportellate, “Siamo tutti pronti a urlare allo scandalo per l’allargamento del mondiale 2026 a 48 squadre. Poi arrivano i semi-professionisti a umiliarci nel girone. Il calcio è cambiato e non per forza in peggio: la competitività si mette in discussione ogni giorno, ogni partita. Le piccole non esistono se il Brasile può prenderne 7 dalla Germania e l’Italia pareggiare con la Nuova Zelanda: lo spettacolo del calcio è anche un gol di rimpallo di un debuttante, che regala un giorno di gioia a un Paese intero“.
Lo stesso allargamento dell’Europeo da 16 a 24 squadre aveva fatto gridare allo scandalo; ma poi tutti con l’Albania di De Biasi, la scuola italiana che vince all’estero, il fascino e l’orgoglio delle piccole. Anche lì, non è che fosse diventato il torneo del quartiere: il Galles – che ha beneficiato della riforma, almanacco alla mano – ha legittimato la sua presenza con l’approdo in semifinale, nazionali storiche ed espressione di campionati top come Spagna e Inghilterra si son fermate agli ottavi. Allargarsi ha significato aprirsi a quei movimenti di livello medio ma in passato capaci di produrre campioni come George Best o Ryan Giggs: fossimo stati meno snob, all’epoca.
Lo stesso si può dire della Coppa del Mondo; anzi, di più: mondiale significa dare rappresentanza anche su base geografica, offrire ad alcune realtà ora nascoste la più bella delle vetrine.
Non eccitatevi ogni due anni per la Coppa d’Africa se poi le migliori di quelle squadre vi fanno schifo al mondiale.