Un consiglio per gennaio
Va concludendosi il 2016 del calcio.
È stato un anno particolarmente ricco di eventi, in particolare in estate; Copa América ed Europeo ci hanno offerto pomeriggi, serate e nottate (complice il fuso orario) utili a sfamare la nostra voglia di calcio anche a campionati nazionali in archivio; l’avventura di Sebastian Giovinco in Nord America ha spalancato nuove porte agli appassionati italiani che, complice l’ampia copertura televisiva della lega statunitense, si son goduti le serpentine dell’ex Juventus in un campionato di livello certo inferiore alle 5 migliori nazioni d’Europa ma dal ritmo alto e dai contenuti sorprendenti se affrontato senza pregiudizi. Le coppe europee, prima e dopo la pausa estiva, ci hanno confermato le solite sentenze: spagnole su tutte tatticamente, tecnicamente e a livello di risultati, gli altri a inseguire e ad aggiornarsi, si spera.
Ma l’anno che si concluderà stanotte ha detto cose interessanti anche nei confini natii. Se la Serie A assomiglia sempre più a un monologo bianconero ed è la fotocopia di sé stessa più che altro, lo scorso campionato cadetto ha premiato la cavalcata di un Crotone sorprendente eppure meritevolmente promosso.
Insieme a quella del Pescara (via playoff) e del Cagliari, che doveva essere la Juve della B ma nella massima serie ci è tornato per inerzia e per eccesso di talento più che altro. Proprio dei rossoblù parlerò in questo ultimo editoriale dell’anno, per vicinanza geografica e familiare ma anche per via di un anno, il 2016, in cui si fatica a intravedere il bicchiere, figurarsi a decidere se è mezzo vuoto o mezzo piano.
Mi svincolo subito dall’equivoco: il Cagliari è dove deve essere.
Già di suo una squadra scudettata – il titolo del 1970 fu il primo a essere conquistato da un club meridionale, il che dice tanto del divario economico e strutturale tra un’Italia e l’altra – meriterebbe, per status e storia, la massima serie; figurarsi nella nostra epoca storica, con un campionato a 20 squadre di livello a volte imbarazzante, dove per retrocedere a volte ti deve andare male proprio tutto. Abbiamo visto salvarsi squadre malamente costruite, perché ce ne erano tre comunque peggiori e non per merito proprio: a ogni sardo farà un male cane ripensare a quell’infausto 2014-2015.
Il Cagliari è tornato nella massima serie anche perché per una pronta risalita aveva la rosa. Confermati veterani quali Dessena e Sau, il torneo cadetto è stato teatro ideale per la consacrazione o il ritorno al top di elementi come João Pedro e Farias, per non parlare di Storari, uno che fino a poco tempo prima faceva il vice a Buffon e aveva dimostrato in passato di poter difendere i pali di club di ogni rango e blasone.
Una promozione arrivata, tuttavia, con un lento e stanco trascinarsi. Una strana crisi di risultati, troppi pareggi e passi falsi e le prime perplessità sul tecnico Massimo Rastelli; se Carlo Felice festante e… Felice aveva messo in naftalina ogni critica, la Serie A e un certo reality check hanno rinfiammato l’ambiente.
Mentre scrivo, i rossoblù occupano la quattordicesima piazza e tutto sommato è un dato positivo, ma si poteva e doveva dare di più: l’ambiente ha espresso dubbi e palesato frustrazione verso il tecnico, il portiere Storari (invero involuto…) e altri calciatori.
Leader come Dessena e Sau, pur scusandosi successivamente, hanno pubblicamente reagito male ad alcune scelte dell’allenatore e il Sant’Elia assomiglia a una polveriera (simbolicamente, s’intende) che a uno stadio di calcio; vi si sente il gelo, pur nella mitezza di un inverno sardo che a certi continentali parrà una primavera: sotto 1-3 in casa col Sassuolo faceva veramente freddo.
I rossoblù devono decidere, insomma, se accontentarsi di una salvezza figlia della mediocrità della Serie A degli anni duemiladieci oppure se, dato anche l’ingente spesa annuale per gli ingaggi, guardare più su.
Sempre più problematico il rapporto tecnico-tifosi, questi ultimi nutrono dubbi sulla bontà degli ingaggi di elementi che in estate li avevano fatti sognare. Isla, soprattutto, è il più pagato – dati pubblicati dall’Unione Sarda alla mano – annualmente e il suo legame sino al 2019 col club spaventa.
Si è seguita, forse, una politica “alla QPR” di qualche anno fa, imitata anche da altri in Italia; parametri zero, veterani in esubero da grandi società, giocatori poco abituati a partire dal basso o a essere chiamati a performare partita dopo partita.
L’età media è alta e forse, visto ciò che esprime il campionato attuale e il ritardo delle ultime tre rispetto al resto della truppa, per (ri)mettere radici in A sarebbe bastato qualche (ex) grande giocatore in meno e magari un giovane di prospettiva in più.
Questa squadra, a momenti, ricorda il primo Toro di Cairo, gli anni dei De Ascentis, degli Amoruso, dei Diana: magari ex nazionali e giocatori maiuscoli, ma fuori posto dove devi costruire, stabilizzarti pensando al domani oltre che all’hic et nunc.
Nulla è perduto ma la modesta proposta è sempre la stessa, per il mercato di gennaio: meno campioni (già) arrivati e più giovani affamati e di prospettiva.
Il top è di chi se lo prende, ma bisogna averci gambe e cuore.
Oggi e domani.